Con l’approssimarsi delle elezioni europee si intensificano le iniziative con cui i partiti della destra cercano di condizionarne l’esito ciascuno in proprio favore unendosi però compatti nell’attaccare le opposizioni. Nel giro di una settimana o poco più abbiamo assistito alla trattativa tuttora in corso per vendere l’Agi, la seconda agenzia di stampa nazionale, ad Angelucci, alla proposta di legge volta a complicare la procedura giudiziaria per autorizzare gli arresti, al vergognoso tentativo di modificare la “par condicio” in favore dei partiti di governo, all’altrettanto meschino tentativo di reintrodurre il carcere per i giornalisti ancorché cancellato da una sentenza della Corte Costituzionale. Senza considerare qualche evento minore ma pur sempre indicativo dell’aggressività del Governo, come il varo della “Giornata Nazionale del Made in Italy” che cadrà in coincidenza con la data di nascita di Leonardo da Vinci (che tra non molto Sangiuliano scoprirà essere di destra, come Dante) o la ormai certa nomina alla direzione artistica del Teatro alla Scala del candidato proposto proprio da Sangiuliano, malgrado la designazione spetti al consiglio di amministrazione.
La marea crescente dell’attivismo propagandistico del Governo avrebbe dovuto indurre le opposizioni a compattarsi in tempo utile per affrontare le elezioni europee ma anche le più ravvicinate amministrative. Ci è invece toccato assistere alla severa condanna delle irregolarità emerse in Puglia e in Piemonte (di portata penale forse non superiore ai casi giudiziari di Sgarbi, della Santanchè, di Delmastro, per non parlare di quelli berlusconiani) ed alla presa di distanza dal PD nella ricerca di candidati comuni. Il tutto nonostante la Schlein abbia coerentemente mantenuto una posizione dialogante e, secondo alcuni, quasi remissiva. L’estrema pazienza della Schlein le ha infatti guadagnato critiche sia dall’interno del partito che dai media dell’area progressista. Giudizi negativi non condivisi però da Prodi, da Bersani e da politologi di primo piano come Nadia Urbinati e Piero Ignazi, evidentemente preoccupati della piega autoritaria che la politica del Governo va assumendo. E come non esserlo, se si considera che, oltre al pacchetto di mosse propagandistiche di cui si diceva innanzi e che contiene comunque misure concrete già di per sé allarmanti, il Governo Meloni persegue a marce forzate anche i suoi più “qualificanti” obiettivi di programma: fra qualche giorno sarà approvata in via definitiva l’autonomia differenziata, la separazione delle carriere dei magistrati sarà decisa probabilmente prima delle elezioni europee. L’elezione diretta del premier, la famosa “madre di tutte le riforme” (chissà quante e quali altre ne metterà al mondo a sua volta) procede spedita e la Meloni, attraverso l’occupazione dei mezzi di informazione e dei centri di potere sta già lavorando per motivare l’elettorato ad approvarla quando sarà chiamato ad esprimersi nell’inevitabile referendum.
Di tutte queste nefaste prospettive pare non si rendano conto né Conte, né Calenda, né Renzi, né, ahinoi, la Bonino e Sinistra Italiana e neppure il neocandidato ad un seggio europeo Michele Santoro. Per Conte la priorità è sgraffignare qualche “per cento” al PD, incurante dei rischi di sconfitte più o meno clamorose in Basilicata e in Puglia. Gli altri isolazionisti sono impegnati ad accrescere il loro consenso allo scopo di superare la soglia del 4% necessaria ad ottenere una rappresentanza nel Parlamento europeo che, potremmo scommetterci, sarà ininfluente sulle scelte di politica comunitaria. Non dovessero superare la percentuale di accesso, e la cosa è abbastanza certa per quasi tutte le piccole liste che corrono in solitaria, avranno semplicemente fatto un gradito regalo alla Meloni che non li ricambierà perché rivelatisi, col fallimento elettorale, insignificanti. Se entro questa legislatura l’Italia avrà inaugurato una democrazia illiberale modello Orban, la storia non ne darà certamente la colpa alla Schlein.