Il XVII secolo fu per la città di Napoli, come raccontano i contemporanei, un vero inferno sulla terra. Nei due secoli precedenti la città aveva visto la fioritura dei commerci e della cultura rinascimentale, ispirata dal dispotismo illuminato della casa reale degli Aragonesi. Napoli si era arricchita non solo di infrastrutture (come la nuova darsena portuale, l’ampliamento del tracciato urbano, l’ammodernamento dell’acquedotto greco-romano e la creazione di nuovi ospedali), ma la dinastia dei Trastàmara aveva avviato anche una serie di trattati con le maggiori potenze commerciali del tempo facendo di Napoli un punto obbligato di scalo logistico nel Mediterraneo. I sostanziosi introiti provenienti dalla tassazione sul grande commercio marittimo permisero alla corona di attuare una pressione fiscale accettabile sul popolo minuto, una volta tanto non vessato dai dominatori di turno. Nel periodo aragonese si assistette ad una enorme fioritura delle arti e delle scienze, eminenti figure frequentarono la corte dei sovrani Alfonso e Ferrante. I regnanti incoraggiarono questa rinascita culturale in due modi: misero un freno all’opera oscurantista della Santa Inquisizione e sovvenzionarono artisti e filosofi, scienziati ed architetti di ogni parte del mondo a trasferirsi nella Capitale partenopea sotto la loro protezione.
Di ben altra natura fu il trattamento riservato al popolo napoletano dai vincitori delle dispute dinastiche del XV secolo, chiamate dalla storiografia Guerre d’Italia. Le truppe di Ferrante II vennero sconfitte dal re di Francia Carlo VIII nel 1495. Successivamente il regno meridionale fu spartito tra Francesi e Castigliani: Napoli spettò alla corona spagnola divenendo, di fatto, una colonia degli iberici. Nel 1503 con Gonzalo Fernandez de Cordoba inizia quel periodo storico definito “età vicereale“. Ma com’era il carattere dei napoletani all’arrivo dei conquistadores? In nostro aiuto, numerosi fonti storiche (Lorenzo Valla, Jacopo Sannazzaro, Masuccio Salernitano, Francesco Guicciardini) ce ne tracciano il ritratto. Gente rude, dai modi sbrigativi ma dall’animo quanto mai leale e per nulla incline al compromesso, grandi lavoratori e fedeli alla corona. Giovanni Pontano, umanista e filosofo suddito del regno di Napoli, ci racconta di una trasformazione sostanziale avvenuta già nei primi tempi dell’occupazione spagnola. Nella sua opera Antonius (elogio funebre scritto in memoria del filosofo, amico dei re aragonesi, Antonio Beccadelli detto il Panormita), apprendiamo di come i partenopei avessero contratto l’abitudine al turpiloquio, alla bestemmia, alle pratiche superstiziose che finirono per paganizzare ulteriormente il credo cattolico. Ma anche l’attitudine alla spacconaggine e alla magniloquenza, alla vendetta e al tradimento, alla spudoratezza e alla litigiosità, nonché alla sporcizia e all’accattonaggio. Secondo la testimonianza del contemporaneo francese Jean Jacques Bouchard (Un parisien a’ Rome et a’ Naples, del 1632), la soldataglia spagnola, acquartierata nel complesso urbano tra palazzo reale e il forte di Sant’Elmo, oltre a incrementare paurosamente il vizio del gioco d’azzardo e ad alimentare gli inganni ad esso connessi, avrebbe diffuso a Napoli la prostituzione maschile e femminile. Le masnade della Grande y Felicisima Armada avrebbero insegnato alla delinquenza indigena anche come organizzarsi in una “confraternita”, seguendo l’esempio della società segreta di criminali del XIII secolo chiamata Guarduna, vera antenata della Camorra.
Il periodo vicereale napoletano (1503-1688) è ricordato come uno dei momenti più bui nella storia della città. Le varie vicissitudine storiche che resero Napoli vassalla della Spagna, colonia ricca di risorse semplicemente da spremere a tutto favore della corona. Il male più grande, che derivò dal ridimensionamento di Napoli da principale città di un regno autonomo a provincia occupata, fu quello di essere tagliata fuori dal resto d’Europa proprio nel momento dei più grandi cambiamenti e sviluppi economici e sociali. Due maledetti secoli che fecero ripiombare la capitale del sud Italia in un medioevo che non aveva mai veramente conosciuto. Epidemie mortali di peste, febbri putride, scrofola, mal caduco e poi eruzioni vulcaniche, terremoti, tsunami e ancora rivolte popolari, carestie, guerre: calamità che fecero aumentare maggiormente la tassazione dagli occupanti; la miseria del popolo divenne a volte insostenibile tanto da sfociare in insurrezioni popolari, tra cui quella capitanata da Masaniello.
Il Supremo Consiglio d’Italia (organo preposto al governo delle terre occupate militarmente), per nulla propenso ad ascoltare le impetrazioni di un popolo allo stremo, rispose con l’unico linguaggio a lui conosciuto: la repressione e la violenza. Fallita l’introduzione del Tribunale della Santa Inquisizione nel vicereame, la monarchia iberica impose ai reggenti di turno di far applicare lo stesso sistema coercitivo usato, “con infame successo”, nei territori occupati delle Indie Occidentali: la tortura, vero simbolo dell’imbarbarimento politico e sociale. Tra il 1537 ed il 1540, Don Pedro de Toledo, viceré di Napoli, trasferì i vari Tribunali cittadini e gli altri uffici giudiziari nella fortezza di Castel Capuano. L’esigenza era quella di accentrare in un unico luogo tutte le attività legate all’amministrazione della giustizia. Parte del vecchio castello normanno divenne carcere duro. Da questo clima giustizialista emerge su tutte la triste figura del boia che aveva l’incarico di eseguire le sentenze, non solo di morte, ma anche i supplizi comminati in fase processuale. Figura disprezzata dal popolino per il suo triste ufficio, era definito dai napoletani “Mastù mpenna” (mastro impicca). Le torture erano varie e crudelmente fantasiose. Raccontano le cronache dell’epoca (Diurnali – G. De Montemayor) che la mutilazione fatta per mezzo di un coltellaccio era il supplizio riservato ai più poveri che non avevano i mezzi per pagare le gravose gabelle. La pena poteva prevedere l’asportazione di occhi, il taglio di orecchie e naso per i debiti più onerosi non più esigibili. Per i ladri colti in fragranza, il taglio della mano sinistra la prima volta e, in caso di recidiva, della mano destra. Le pubbliche esecuzioni erano uno degli spettacoli preferiti dalla folla che, non solo trovava queste pratiche ripugnanti di proprio gradimento, ma partecipava attivamente alla somministrazione dei supplizi. Per esempio in caso di Lardeatura (tortura comminata ai sodomiti), era previsto il dilaniamento delle carni con tenaglie infuocate e soprattutto scottature operate con l’uso di pezzi di lardo (da cui “lardïata”) bollente che venivano soffregati sul corpo del condannato. La prassi prevedeva che il condannato sfilasse per le strade della città legato su di un carro. Ad accompagnarlo non vi era solo il carnefice, ma anche le imprecazioni e gli insulti della gente che assisteva al tragico corteo, in un deprecabile spettacolo montato ad hoc come deterrente per la plebe, al fine di mostrare le irreparabili conseguenze che poteva comportare il commettere reati.
Supplizi riservati ai falsari erano la Palïata e la Mazzïata. Il condannato veniva portato al luogo dell’esecuzione legato ad una grande ruota di legno. La ruota veniva poi fatta girare su di un asse conficcato nel terreno. Mentre la ruota girava il boia spaccava le ossa al condannato servendosi di un grosso martello da fabbro (‘a mazzetta) o di un bastone di legno (la paliata era l’attrezzo con cui il fornaio infornava i pezzi di pane), facendo attenzione che lo stesso non morisse a causa delle percosse ricevute. Alla fine del tormento il boia provvedeva a impiccare il reo, mentre era ancora appeso lo squartava con un coltellaccio. Diviso poi il corpo in quattro parti, poneva i pezzi in altrettante gabbie di ferro (‘e ccascette da cui il detto napoletano “Jì a fernì cu ‘a capa ‘int’ ‘a cascetta”) che venivano esposte sulle porte cittadine.
“S’addà tenè amicìzia pure c’ò boîa a Vicarîa”, ammoniva un antico detto napoletano, invitando ad intrattenere rapporti di amicizia anche con chi svolgeva la più infame delle professioni. Soprattutto con il boia, che avrebbe avuto la possibilità di eseguire la tua condanna a morte in modo rapido, senza lasciarsi trasportare da impulsi sadici.
Lercia consuetudine dei carnefici era quella di recarsi dalla famiglia dei condannati e pretendere una tangente per eseguire la loro opera in maniera veloce. Intascata dalla famiglia la somma estorta andavano poi dalla parte offesa offrendosi di torturare il condannato con maggiore ferocia, se gli fosse stata versata una quota extra. A tale mercimonio era dedito anche Antonio Sabatino, il boia della Vicaria. Denunziato per tentata estorsione dalla nobile famiglia Taglialatela, venne arrestato e rinchiuso nelle carceri della Vicaria e condannato dalla Gran Corte a essere mazzolato e poi impiccato. La sua testa, spiccata dal collo venne esposta per mesi sulla torre di Porta Capuana. I beni del perfido boia della Vicaria vennero confiscati e donati alla Compagnia dei Bianchi della Giustizia.
La scrittura evoca immagini vivide e stimola una riflessione su come il passato influenzi la percezione presente di una città così ricca di storia e contrasti.
Caro Antonio, tu utilizzi il passato napoletano come specchio per interrogare le dinamiche di potere, resistenza e adattamento che definiscono ogni società umana.
Carissimo Raff i tuoi commenti sono sempre puntuali e oltre modo graditi! Come ci insegna il nostro illustre concittadino Gian Battista Vico la Storia non è una entità immobile, monolitica ma soggetta a corsi e ricorsi, per tanto non si dovrebbe smettere mai di studiarla e raccontarla correndo altrimenti il rischio di reincappare negli stessi errori. Ti saluto con affetto