Negli scorsi giorni campeggiava su molti quotidiani, anche se con titolazioni diverse, la notizia dell’increscioso e preoccupante episodio verificatosi in un tribunale della Repubblica, dove, alla lettura della sentenza di condanna a vari anni di carcere di alcuni degli imputati, responsabili dell’assalto e della devastazione aggravata di una sede della CGIL, un manipolo di esagitati ha dato luogo a una bagarre inaccettabile e incivile scatenata per manifestare il loro sostegno agli imputati e il disprezzo per le istituzioni repubblicane, prima fra tutte la magistratura. Il gruppo di manifestanti, appartenenti al gruppo politico denominato Forza Nuova (in realtà è vecchia, perché si tratta di un movimento neofascista e nazionalista di estrema destra, che si rifà a slogan e comportamenti che risalgono a più di ottant’anni fa), si è esibito con il tipico saluto romano, parole di arrogante sfida nei confronti delle forze dell’ordine presenti in aula, e con la promessa che “la gente come noi non molla mai” (a ricordare il famoso “boia chi molla” di chiara marca fascista). La sentenza, arrivata a due anni dai fatti, è stata certamente utile a collocare gli imputati e i loro sostenitori nella “matrice” che più gli si confaceva, quella della ricostituzione del disciolto partito fascista, in violazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che recita; “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. C’è però, in questa vicenda un grosso punto interrogativo, ed è questo: perché nella sentenza di condanna non viene fatta la minima menzione del reato di ricostituzione del disciolto partito fascista, ai sensi della norma costituzionale appena citata? A suo tempo, il commento dell’allora non ancora presidente del Consiglio, la “camerata” Giorgia Meloni, affermò che ciò che era accaduto “sicuramente è violenza, poi la matrice non la conosco, nel senso che non so quale fosse la matrice di questa manifestazione, sarà fascista, non sarà fascista”. Bene, adesso la Presidente la sa e non può ignorarla. Ci chiediamo se avverrà ciò che è avvenuto al teatro alla Scala di Milano, quando la Digos identificò e prese le generalità di un signore che a voce alta aveva urlato “viva l’Italia antifascista”, non commettendo, pertanto, alcun reato. Siamo in attesa di sapere chi sono gli autori dell’inaccettabile gazzarra e se saranno presi appropriati provvedimenti nei loro confronti.
Ma, a prescindere da questo episodio, di per sé semplicemente una squallida manifestazione di intolleranza e di arroganza, ciò che vi è dietro è ciò che dovrebbe preoccuparci. Edmund Burke, filosofo e politico britannico della metà del ‘700, coniò una frase rimasta famosa e che campeggia su un monumento collocato all’interno del campo di concentramento di Dachau, dove furono compiuti efferati e abominevoli crimini contro l’umanità. La frase è “chi non conosce la storia è condannato a ripeterla”. Ci chiediamo: queste più o meno giovani formazioni di estrema destra, che si richiamano al fascismo, sanno di cosa parlano? Conoscono la storia che vorrebbero ripetere con così tanto ardore? Conoscono l’origine della stessa parola “fascismo”, che si rifà ai fasci di combattimento delle falangi romane per ricreare nei suoi aderenti una sorta di orgoglio postumo per essere noi italiani gli eredi del più grande impero del mondo, quello romano? Nostalgia, quindi, di un passato remoto, ormai fuori dal tempo, di cui quasi nessuno, che non abbia vissuto nel ventennio fascista, ricorda.
Innanzitutto il fascismo era retorica; una retorica piuttosto povera, ma che colpiva un popolo di certo non molto istruito e, come sempre, pronto ad accodarsi al carro del vincitore. E, come scrive appropriatamente Umberto Eco nel suo Il fascismo eterno (2017): “Mussolini non aveva nessuna filosofia: aveva solo una retorica. Cominciò come ateo militante, per poi firmare il concordato con la Chiesa e simpatizzare con i vescovi che benedivano i gagliardetti fascisti”. Cosa sanno di come si svolgeva la vita quotidiana degli italiani in quel periodo? Sanno, per esempio, che era assolutamente vietata la libertà di stampa, se non quella di regime, così che le uniche notizie che pervenivano agli sparuti lettori erano solo quelle volute e manipolate dal regime? Sanno che anche in Italia si era scatenata la caccia all’ebreo e che molti italiani con dei nomi “sospetti” furono costretti a cambiarli per non incappare nelle maglie della polizia segreta che, godendo dell’apporto di innumerevoli spie che si annidavano ovunque, li scovavano e li deportavano, per esempio nel carcere dell’isola di Ventotene, dove i dissidenti come Gramsci e molti altri furono rinchiusi, morendovi? E mentre Matteotti e i fratelli Rosselli venivano vigliaccamente assassinati per impedir loro di dire e di scrivere ciò che accadeva? La delazione era all’ordine del giorno, e bisognava stare attenti a ciò che si diceva, perché ogni frase in odor di dissenso poteva essere riferita alle autorità, con tutte le conseguenze che ne derivavano.
Abbiamo parlato di retorica, associandola al fascismo, ma dovremmo anche parlare di coreografia; era tutto uno scenario realizzato ad arte affinché fin dalla prima infanzia si respirasse l’aria mefitica delle idee del regime. Avevamo i giovani Balilla, gli Avanguardisti, la Gioventù italiana del Littorio, i motti come “libro e moschetto, fascista perfetto”, le intemerate del “Duce” (altro termine mutuato dalla romanità: “Dux”) che voleva ricostituire l’impero, tanto è vero che, dopo aver conquistato e saccheggiato l’Etiopia, attribuì al pavido e insignificante Vittorio Emanuele III il titolo di “Re e Imperatore”. Gli attuali estimatori di quel periodo che, fortunatamente per loro non lo hanno mai vissuto, non sanno o non ricordano che i nostri soldati in quel tempo sterminarono barbaramente più di 30.000 civili innocenti nel massacro di Addis Abeba, convinti di avere semplicemente ripulito la regione da barbari selvaggi per i quali non valevano le regole del diritto internazionale.
Forse molti non lo sanno o non lo ricordano, ma fra le parole più appropriate per descrivere il fenomeno fascista, ci sono quelle che pronunciò il grande regista Federico Fellini, nato in pieno periodo fascista, e che sono riportate in “Amarcord”, a cura di G. Angelucci e L. Betti (Bologna, 1974): “Quello che m’interessa è la maniera, psicologica, emotiva, di essere fascisti: una sorta di arresto dell’adolescenza. La repressione del naturale sviluppo di un individuo deve per forza scatenare grovigli compensatori. Il fascismo, per certi aspetti, può sembrare un’alternativa alla delusione, una specie di velleitaria e sgangherata riscossa. Fascismo e adolescenza continuano quasi a essere stagioni storiche permanenti della nostra vita. L’adolescenza, nella vita individuale; il fascismo in quella nazionale. Restare, insomma, eternamente bambini, scaricare le responsabilità sugli altri, vivere con la confortante sensazione che c’è qualcuno che pensa per te, la mamma o il papà, ma un’altra volta è il sindaco, o il duce, e poi il vescovo, la Madonna e la televisione … Le eterne premesse del fascismo mi pare di ravvisarle, appunto nella mancanza di conoscenza dei problemi concretamente reali, nel rifiuto di approfondire per pigrizia, per pregiudizio, per comodità, per presunzione, il proprio rapporto con la vita. Vantarsi di essere ignoranti, cercare di affermare sé stessi o il proprio gruppo non con effettiva capacità, esperienza, confronto della cultura, ma con la millanteria, le affermazioni fini a sé stesse, lo spiegamento di qualità mimate invece che vere”.
Queste parole di Fellini, che non esprime giudizi politici, ma si limita ad una diagnosi psicologica, si potrebbe dire che riconducono anche il fascismo al suo mondo, quello tante volte rappresentato nei suoi film, un mondo fatto di sogni, illusioni che non nascondono la cartapesta di cui sono fatte; perché questo è stato il fascismo, il sogno irrealizzabile di conquistare il mondo, di scopiazzare il grande Reich tedesco che era il modello di Mussolini, il quale dimenticava, però, che gli italiani non erano tedeschi. E, sempre facendo riferimento a Umberto Eco, ecco una sua sintesi del fascismo: “La libera stampa soppressa, i sindacati smantellati, i dissidenti politici confinati su isole remote, il potere legislativo divenne una mera finzione e quello esecutivo (che controllava il giudiziario, come pure i mass media) emanava direttamente le nuove leggi, tra le quali vi furono anche quelle per la difesa della razza (l’appoggio formale italiano all’Olocausto)”. Concludiamo le riflessioni di Eco sul fascismo riportando un suo pensiero: «Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. Dalla dichiarazione attribuita a Göbbels (“Quando sento parlare di cultura, estraggo la mia pistola”) all’uso frequente di espressioni quali “porci intellettuali”, “teste d’uovo”, “snob radicali”, “le università sono un covo di comunisti”, il sospetto verso il mondo intellettuale è sempre stato un sintomo di Ur-Fascismo (o fascismo eterno). Gli intellettuali fascisti ufficiali erano principalmente impegnati nell’accusare la cultura moderna e l’intellighenzia liberale di aver abbandonato i valori tradizionali».
Potrebbe non esservi mai termine a ciò che vi è ancora da dire su quel periodo della nostra storia, ma temiamo che possa avverarsi la frase di Burke citata in precedenza, ovvero se ignoriamo la storia potremmo essere costretti a ripeterla. Ed è quello che sta accadendo sotto i nostri occhi, o per lo meno sotto gli occhi di chi sa leggere fra le righe e ha un minimo di apertura mentale. La “legge bavaglio”, come viene definito il provvedimento che impedirebbe alla libera stampa di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare, è solo l’inizio di un cammino che, sotto la guida della bionda “camerata”, sta portando l’Italia fuori dal contesto internazionale: basta riflettere sul nostro rifiuto di ratificare il MES (Meccanismo Europeo di stabilità) voluto fortemente dal leghista Salvini, che sembra fatto su misura, da come si esprime, si abbiglia, si atteggia, per una sgrammaticata riproduzione dell’ideale fascista. Non sottovalutiamo i segnali che ormai da poco più di un anno stanno prendendo forma e che sotto una terminologia più sfumata e attuale, mantengono in nuce l’essenza di quel pensiero che alcuni credevano morto e sepolto. Ed è perciò appropriato concludere questa nostra disamina con le parole di Francesco Filippi, storico di chiara fama, che nei suoi Ma perché siamo ancora fascisti? E Mussolini ha fatto anche cose buone, ci fa riflettere, dicendo: «Dopo settant’anni dalla caduta del fascismo, mai come ora l’idra risolleva la testa, soprattutto su Internet, ma non solo. Frasi ripetute a mo’ di barzellette per anni, che parevano innocue e risibili fino a non molto tempo fa, si stanno sempre più facendo largo in Italia con tutt’altro obiettivo. E fanno presa. La storiografia ha indagato il fascismo e la figura di Mussolini, e continua a farlo. Il quadro che è stato tracciato dalla grande maggioranza degli studiosi è quello di un regime dispotico, violento, miope e perlopiù incapace. L’accordo tra gli studiosi, che conoscono bene la storia, è piuttosto solido e i dati non mancano. Ma chi la storia non la conosce bene – e magari ha un’agenda politica precisa in mente – ha buon gioco a riprendere quelle antiche storielle e spacciarle per verità. È il meccanismo delle fake news, di cui tanto si parla in relazione a Internet; ma è anche il metodo propagandistico che fu tanto caro proprio ai fascisti di allora: “Dite il falso, ditelo molte volte e diventerà una verità comune”, per reagire a questo nuovo attacco non resta che la forza dello studio. Non resta che rispondere punto su punto, per mostrare la realtà storica che si cela dietro alle “sparate” della Rete. Perché una cosa è certa: Mussolini fu un pessimo amministratore, un modestissimo stratega, tutt’altro che un uomo di specchiata onestà, un economista inetto e uno spietato dittatore. Il risultato del suo regime ventennale fu un generale impoverimento della popolazione italiana, un aumento vertiginoso delle ingiustizie, la provincializzazione del paese e infine, come si sa, una guerra disastrosa». L’autore si chiede ancora: «Com’è possibile che dopo tutto quello che è successo, dopo una guerra disastrosa, milioni di morti, l’infamia delle leggi razziali, la vergogna dell’occupazione coloniale, una politica interna economicamente fallimentare, una politica estera aggressiva e criminale, un’attitudine culturale liberticida, una sanguinosa e lunga guerra civile … oggi ci guardiamo intorno, ben addentro al terzo millennio, e ci scopriamo ancora fascisti? Ma cos’altro avrebbe dovuto succedere per convincere gli italiani che il fascismo è stato una rovina? Eppure ancora si moltiplicano le svastiche sui muri delle città, cresce l’antisemitismo, un diffuso sentimento razzista permea tutti i settori della società e il passare del tempo sembra aver edulcorato il ricordo del periodo più oscuro e violento d’Italia: a quanto pare la storia non ci ha insegnato abbastanza, non ci ha resi immuni … soprattutto ci mostra come noi italiani ci siamo raccontati e autoassolti nel nostro immaginario di cittadini democratici, senza mai fermarci a fare davvero i conti col passato. Che, infatti, non è passato».