L’ultimo saluto a Efisio Marini

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Efisio Marini (Cagliari 13 aprile 1835 – Napoli 11 settembre 1900)

Napoli, 12 settembre 1900

Sala di riconoscimento cittadina

Via Cesare Rosaroll, 49 – Napoli

«’E chest’è n’altra jurnata ‘e sole!» Dice beffardamente l’uomo salendo a staffetta su di un carro funebre di terza classe. La pioggia settembrina gli infradicia il logoro soprabito della divisa, una volta blu, della Guardia mortuaria cittadina, il servizio di necrofori istituito per accompagnare all’ultima dimora i cittadini più indigenti. L’uomo poi si rivolge allo spelacchiato morello, mettendogli la cavezza: «Jamm Nirò hamm’arrivà ‘o Vico de’ garuofane.» (1)

Un signore settantenne ben vestito segue lo strano dialogo: «Ma sul bigliettino c’è scritto Via Gian Antonio Summonte…»

Lo schiattamuorto guarda beffardo il signore azzimato che “parla tosco”: «Vuje ‘e do’ ne site, mio signò?»

«Di Cagliari, in Sardegna, sapete»

«E allora lasciatevi servire!»

Il triste equipaggio, partito dalla sala di riconoscimento di via Rosaroll, lentamente costeggia Forcella per poi scendere via Cirillo fino al Rettifilo, tagliando il percorso per una buona metà.

Il necroforo è inquieto, divorato da una curiosità che vuole fugare: «Ho saputo, signurì, che il vostro amico era nu professorone, nu scienziato ma era puro nu poco pazzo… è vero?»

«Era solo sfortunato… amava cose per cui gli altri provano disgusto…»

Il cocchiere non capisce ma ormai non c’è più tempo, sono arrivati a destinazione. Sulla soglia del palazzo, al numero 18, due uomini imponenti attendono riparandosi dalla incessante pioggia. Mentre il becchino scarica la frugale bara, fatta di assi di pino grezzo, i due uomini si fanno avanti, il più anziano dei due si rivolge al signore elegante: «Il professor Agostino Lay Rodriguez presumo? Lasciate che mi presenti, sono il deputato del Regno Giovanni Bovio, e questo signore è il poeta Salvatore Di Giacomo, entrambi eravamo molto amici del dottore.»

Mentre i tre parlano tra di loro, lo schiattamuorto appoggia la cassa vicino al muro del palazzo. Dal profondo dell’androne proviene un odore dolciastro, misto di canfora, putredine, reagenti chimici e acqua di colonia.

«Azz’ chest’è pecchè ‘o chiammavano ‘o Vico de garuofane! Tè, c’addore e sciure, tè…» Finito l’apprezzamento l’uomo si carica a spalla la cassa ed invita i tre signori a seguirlo. Il poeta più degli altri avverte un’atmosfera sospesa. Anche il solito andirivieni della zona di Mezzocannone sembra essersi interrotto, uno strano silenzio permea la scena mentre la pioggia continua a cadere imperterrita. Per romperlo inizia a parlare: «Scusate la curiosità certamente inopportuna, professore, potreste raccontarci qualcosa della gioventù del defunto? Egli non ne faceva mai argomento di conversazione.»

Il vecchio scrolla l’acqua piovana dal costoso soprabito di foggia inglese: «Veda maestro, Efisio Marini ha sempre avuto un pessimo carattere, ma questo penso già lo sappiate!» I tre si lasciano sfuggire una risata. «Io conobbi Efisio nel ’61, lui aveva ventisei anni ed era appena tornato da Pisa dove aveva conseguito ben due lauree, in Medicina e Scienze naturali, in meno di sei anni. Era un uomo pieno di sogni e speranze. Si avvicinò a me perché ero forse l’unico, nella nostra Cagliari, a praticare l’arte del Dagherrotipo. Efisio voleva imparare, era affascinato dal processo creativo.»

«Una curiosità che lo ha accompagnato tutta la vita, buonanima. — Il filosofo Bovio aspira una lunga annusata di tabacco da una preziosa tabacchiera — Non volevo interromperla, la prego continui…»

«Marini fu assunto come assistente presso il Museo delle Scienze naturali, lì si appassionò allo studio della Paleontologia, in particolare dei fossili. L’aspetto che più lo incuriosiva era la conservazione della materia attraverso i secoli. — Lay Rodriguez si liscia i baffi impomatati — Non andava d’accordo con nessun collega, sembrava essere presuntuoso ma era una pasta d’uomo.»

Il becchino è arrivato alla porta, bussa forte mostrando la poca sensibilità di chi ha perso ogni rispetto per la Morte… Il vecchio cagliaritano si fa avanti con le chiavi senza smettere di conversare con i due sodali: «Efisio Marini usava estremo rigore scientifico nelle sue ricerche, aveva grandi abilità manuali ed era più che infatuato dai processi alchemici. Non so come spiegarlo, Efisio era uno scienziato rigoroso ma anche un po’ negromante… Aveva inventato una tecnica che imitava il processo della fossilizzazione e impediva la putrefazione. Inoltre, con le sue sperimentazioni, era riuscito a scoprire anche come ottenere il risultato inverso, rivitalizzare la materia fossilizzata.»

Il becchino apre la porta e rimane scioccato dallo spettacolo che si presenta davanti ai suoi occhi. Ovunque nella stanza parti di corpi umani esposte in bella mostra. In un angolo poco illuminato il torso pietrificato di una bella adolescente ammicca da una teca, al centro del locale una bara di vetro ospita i resti di una bambina, sembra una bambola elegantemente vestita, ma è un cadaverino pietrificato salvato dall’insulto del tempo.

«Mamma da Saletta!», lo schiattamuorto fa per allontanarsi, ma Di Giacomo lo ferma: «Facite chell’ ch’ avita fa, dopo ve regal’ n’ auta bella mazzetta…» Il poeta stringe la mano del becchino anticipandogli, di nascosto dagli altri, una lauta mancia. L’uomo riprende a lavorare…

«Cosa gli avete detto per farlo continuare?» Il sardo sembra incredulo davanti ad un cambio d’atteggiamento così repentino.

«Niente professò, gli ho detto che erano statue…»

«Ma non sono statue, sono vere! — indica i preparati anatomici — Ecco, vedete, anche in vita Marini dovette combattere con la stupidità e la superstizione. Non solo quella del popolino ma soprattutto quella del mondo accademico cagliaritano! Queste parti di cadaveri così amate, il suo carattere introverso e l’invidia professionale gli fecero meritare l’appellativo di “stregone” …»

Il filosofo Bovio s’accorge della tristezza di Lay Rodriguez e lo invita a fumare in un altro locale mentre il becchino compie il suo triste lavoro. Nella stanza adibita a laboratorio molti arti e teste giacciono sulle scaffalature di ferro e marmo come sul banco di un macellaio di quartiere. Anche l’odore non è dei migliori, ma è stordito dalla puzza del “Toscano Garibaldi” che Di Giacomo ha subito acceso.

«Fu proprio per questo motivo che lo scienziato se ne venne a Napoli, era il 1865 lo ricordo benissimo. Qui Marini cercava di trovare quello che a Cagliari gli era stato negato, il rispetto per il suo lavoro. – Bovio sembra infiammarsi per le angherie subite in vita dall’amico — A Napoli fu subito assunto all’Ospedale degli Incurabili, vera palestra dei migliori talenti della Scuola Medica Napoletana, e iniziò, meritatamente, a raccogliere i frutti del suo lavoro di ricerca.»

Il vecchio signore, ripresosi, conferma le parole di Bovio: «Lo accompagnai io stesso all’Esposizione Universale di Parigi nel 1867. Efisio mostrò al mondo accademico le sue straordinarie scoperte. Fu Napoleone III in persona a volerlo insignire della Légion d’honneur per i meriti scientifici. Marini, per riconoscenza, gli regalo un suo lavoro particolare: un tavolino con il pianale intarsiato di sangue, cervello e bile pietrificati, mosso da alcuni congegni a molla. Un capolavoro, macabro se vogliamo, ma pur sempre un vertice dell’ingegno umano!»

Di Giacomo s’intromette chiedendo: «Ma è poi vera la storia del piede della mummia?»

«Verissima! Il famoso medico e naturalista francese Delanton, su consiglio dell’imperatore, sfidò Marini a ridare consistenza vitale al piede di una mummia egizia. Efisio ci riuscì brillantemente e posso assicurarvi che l’arto, dopo il trattamento, tornò roseo e flessibile come se fosse stato appena amputato ad una persona viva, ne fu ben più degno testimone Napoleone III.»

Le operazioni dello schiattamuorto vanno per le lunghe e Bovio riprende la parola: «Fu quello il periodo della sua maggiore popolarità. Da Londra, Vienna, Parigi, Barcellona gli offrirono quello che aveva sempre desiderato: una cattedra e un dipartimento universitario. Più volte rifiutò, Marini era un vero patriota e voleva insegnare sì, ma solo in Italia…»

«Il suo compagno di schieramento politico, deputato, lo ricattò… Ricorda?»

«Certo! Emanuele Gianturco, allora Ministro dell’Istruzione, gli offrì il Dipartimento di Anatomia a patto che Efisio Marini rivelasse il segreto della sua formula per la pietrificazione… Naturalmente il Nostro rifiutò. Era un uomo di una indissolubile tempra morale, Efisio sentiva di meritare l’incarico a prescindere da ogni ricatto.»

«Che grande scienziato… e che grande uomo! – Di Giacomo mastica il mozzicone amaro del toscano spento — Vi ricordate l’epidemia di Colera che colpì Napoli nel 1884? Seimila morti, una città devastata. In quel periodo il professor Marini si dimostrò un vero medico, mentre molti suoi colleghi scappavano dal contagio lui tornò all’ospedale degli Incurabili e curò ogni paziente senza requie, per intere settimane e senza chiedere alcun compenso in cambio!»

«In quegli anni era stato pubblicato su “Lancet”, il periodico scientifico più autorevole a livello mondiale, un suo saggio sui processi di pietrificazione e reidratazione della materia organica. Veniva da una tournee internazionale di lectio magistralis in giro per le più importanti università europee. La celebrità gli diede un po’ alla testa, forse facendo peggiorare la sua salute mentale. Divenne paranoico oltre ogni dire, credeva che tutti volessero rubargli la formula segreta del suo lavoro.»

Di Giacomo alza gli occhi verso il vecchio sardo: «È vero… in pochi amici riuscimmo a restargli vicino, superando, per la stima ed il rispetto provati, quella follia che gli faceva dubitare di tutti… In questi ultimi anni poi si è rinchiuso in questa casa non accettando l’aiuto di nessuno, ha vissuto dissipando la sua fortuna e i suoi talenti. Purtroppo anche qui iniziarono a girare strane voci sui suoi esperimenti e lui non fece niente per metterle a tacere, anzi, guardate questa casa! – Il poeta indica i pezzi di cadaveri esposti ovunque – Il popolino inizio a chiamarlo ‘o mammone, il principe De Sangro redivivo, ‘o scanna criature…»

Il becchino interrompe tutti: «Miei signò, l’amico vuost’ è pronto… lo volete salutare prima ca chiudo?»

Il vecchio risponde a nome di tutti: «No, lui non avrebbe gradito… Ormai è felice, ha portato il suo segreto nella tomba!»

Il deputato del Regno estrae un foglietto dalla tasca interna della giacca: «Voglio che leggiate il testo della lapide che ho disposto di fare affiggere nella Università di Cagliari, che abbia in morte ciò che non ha avuto in vita.»

Il vecchio legge con voce stentorea:

A Efisio Marini che, attenuando la forza corruttrice, placò la morte, non la fortuna né l’ignavia dei vivi, che lasciarono spegnere tanta fiamma senza alimentarla. O Italiani, la giustizia postuma è rimorso

I quattro uomini, così diversi l’uno dall’altro, caricano in spalla la bara e mestamente accompagnano il feretro verso il carro trainato dal cavallo morello Gennarino. Mentre lo schiattamuorto intasca la lauta mancia datagli dal poeta, ricomincia a piovere a dirotto. Una vecchina assiste alla scena dalla sua finestra, fa il segno della croce per rispetto alla Morte, poi chiude nel pugno l’anulare ed il medio, mostrando indice e mignolo nel gesto delle corna…

NOTE

La storia di fantasia è ispirata liberamente alla vita e all’opera dello scienziato Efisio Marini . Chi volesse ammirare i preparati anatomici del naturalista può visitare la pagina a lui dedicata dal Sistema Museale Università della Campania “Luigi Vanvitelli”.

  • (1) Secondo Gino Doria (Le strade di Napoli. Saggio di toponomastica storica, Grimaldi & C. 2018), il toponimo precedente alla ricostruzione del Risanamento di Via Summonte era Vico Garofani.

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