Berlusconi inflisse sorprendentemente ad Occhetto una sonora sconfitta, aggravata dalla presenza di una terza lista centrista, Patto per l’Italia guidata da Mario Segni, in assenza della quale i progressisti avrebbero ottenuto al Senato solo tre seggi in meno di quelli conseguiti dal Polo. E proprio al Senato si consumò la prima delle magagne politiche cui Berlusconi ci ha poi abituato: il senatore Luigi Grillo, ed altri suoi colleghi eletti nel Patto per L’Italia (alleato di Segni), tra cui il produttore Vittorio Cecchi Gori, abbandonarono l’aula consentendo l’abbassamento del quorum necessario a far passare la fiducia al nuovo governo: subito dopo Grillo passò a Forza Italia ottenendo incarichi a ristoro del suo “ravvedimento”.
Il primo governo Berlusconi non fu, come temeva Eco, l’affermazione di un “regime di fatto”. Dissidi interni con la Lega nord di Bossi e l’affiorare dei primi accertamenti giudiziari su presunti, pregressi comportamenti illeciti del Premier, portarono alla caduta del suo governo a meno di un anno dalla sua miracolosa nascita. Dopo il governo-ponte guidato da Lamberto Dini si andò alle elezioni anticipate, ancora col “Mattarellum”. Questa volta la vittoria arrise all’Ulivo di Romano Prodi che formò il suo primo governo con l’appoggio esterno di numerosi piccoli partiti di centro e di sinistra tra i quali il più consistente era certamente il Partito della Rifondazione Comunista. Il governo nasceva dunque fragile e condizionato. Nato nel maggio 1996 cadde nell’ottobre 1998 perché Rifondazione Comunista ritirò l’appoggio esterno. Questa sciagurata scelta, a mio modesto avviso, grida ancora vendetta e Bertinotti, così come i suoi ingenui sostenitori, dovrebbero farne ammenda. Fu un errore decisivo al quale dobbiamo gran parte delle sventure politiche che stiamo ancora vivendo. Fosse durato l’intera legislatura il governo Prodi 1 avrebbe forse risolto il bubbone del conflitto di interessi di Berlusconi.
Ma, come abbiamo ricordato, gli errori non stanno tutti dalla stessa parte: nel 2001 diventava legge costituzionale la riforma del Titolo V della Costituzione, voluta da D’Alema, subentrato alla guida di un governo di larghe intese dopo la caduta del Prodi 1, per spuntare le armi della Lega sul tema dell’autonomia delle regioni. La riforma riconosceva la parità degli enti territoriali minori e dello Stato in quanto elementi costitutivi della Repubblica. Anche di questa riforma paghiamo ancora le conseguenze, basti pensare al disastro cui si avvia la sanità pubblica affidata alle Regioni in via esclusiva.
Al primo governo Prodi fecero seguito, dopo le elezioni, il secondo e il terzo governo Berlusconi che coprirono, pur con un certo travaglio, l’intera legislatura, alla fine della quale le elezioni videro la vittoria della coalizione di sinistra anche se con un margine molto ristretto grazie al formidabile recupero di Berlusconi, che riuscì a contenere una sconfitta prevista in termini ben più sonori. Il secondo governo Prodi nacque quindi più debole del primo e con non poche contraddizioni interne. Sarebbe durato più a lungo, se non avesse trovato sulla sua strada un Berlusconi particolarmente spregiudicato, capace di “convìncere” il deputato dell’Italia dei Valori, Sergio De Gregorio, a votare contro la fiducia al governo e di suscitare allo stesso scopo l’interesse del movimento “spontaneo” dei famosi “responsabili” (ricordate Scilipoti?). Ma anche all’interno della risicata coalizione che governava fu commesso qualche errore: Walter Veltroni annunciò che il PD, nuova denominazione dei DS, si sarebbe presentato da solo alle successive elezioni. La reazione di Mastella, già compromesso da inchieste giudiziarie che riguardavano lui e sua moglie, nel vedere preclusa la prospettiva di una futura alleanza del suo partito, l’UDEUR, alla sinistra negò al Senato la fiducia al governo Prodi, insieme ad altri senatori tra i quali va segnalato, oltre al corrotto confesso Sergio De Gregorio, di cui si è detto, anche il senatore Francesco Turigliatto di Sinistra Critica che criticava, per la verità, il governo già da tempo, fedele alla purezza ideologica ma cieco di fronte allo squallore che caratterizzava la destra berlusconiana: insomma un po’ più incosciente di Veltroni, ma molto, molto meno di Bertinotti. Il governo Prodi 2 durò fino al maggio 2008. Le elezioni anticipate, che si erano svolte nel mese di aprile, avevano visto la riaffermazione del polo berlusconiano ma il suo governo, il quarto, già vacillante per le sconfortanti effervescenze senili del Cavaliere, non durò per l’intera legislatura soprattutto per la disastrosa situazione finanziaria in cui venne a trovarsi il Paese. Terminò con le dimissioni di Berlusconi e la nascita del governo tecnico affidato a Mario Monti, che cessò il 28 aprile del 2013.
Nel febbraio dello stesso anno avevano avuto luogo, come da scadenza naturale, le elezioni politiche che avevano premiato i partiti di sinistra raccolti, sotto la denominazione “Italia bene comune”, dando loro la maggioranza assoluta alla Camera ma non al Senato. Non può essere taciuto il grave errore commesso da Monti che, con non poca presunzione, presentò alle elezioni la sua lista “Con Monti per l’Italia” sottraendo di fatto voti all’alleanza di sinistra. Nel 2013 giungeva però a scadenza anche il mandato presidenziale di Giorgio Napolitano. Toccava al Parlamento appena insediato eleggere il nuovo presidente. Ma dietro un’operazione che sembrava del tutto pacifica si celava una trappola: la candidatura di Romano Prodi fu bocciata dai famosi 101 franchi tiratori. Chi siano stati gli autori di questa che è una delle più squalificanti vicende della sinistra italiana non è dato sapere. Anche se una regia di questa miserevole operazione non è stata mai individuata, sono date per altamente probabili, in ordine decrescente di apporto numerico, i contributi di Renzi, giovane ma già inaffidabile, Franceschini, D’Alema, Giovani Turchi (Orfini). Fu rieletto (suo malgrado!?) Giorgio Napolitano. Questo lo scenario in cui Bersani iniziò le consultazioni per la formazione del nuovo governo. Il primo interlocutore non poteva che essere il M5s che aveva portato in parlamento ben 108 deputati e 54 senatori. L’incontro tra le due delegazioni, trasmesso per la prima volta in streaming su richiesta del M5s, ebbe l’esito schizoide che tutti ricordano e che rappresenta un’altra pietra miliare nella storia delle disfatte del buon senso (o della lungimiranza) che, dopo la sfiducia di Bertinotti al governo Prodi, costellano la vita politica italiana.
L’ingresso in scena definitivo di Renzi, succeduto ad Enrico Letta alla guida del governo di coalizione, è stato un vero florilegio di iniziative deleterie per la sinistra e per il Paese: si va dalla sua linea politica a metà tra il populismo (gli 80 euro) e il conservatorismo reazionario (jobs act) e, una volta fuori dal governo, all’affossamento del governo Conte 2 e così via; anche lui, come Craxi, non era di sinistra. E non lo sono mai stati neppure i grillini, che sono andati ad accomodarsi a sinistra dopo aver compiuto il terzo e ultimo delitto premeditato: aver avviato al capolinea il governo Draghi per meri motivi elettorali, benché consapevoli che le elezioni avrebbero consegnato il Paese alla destra estrema. Per essere un non-partito, il M5s ha sempre avuto a cuore, né più né meno che i partiti tradizionali, l’acquisizione del consenso su molte tematiche, come il fisco, l’assoluto silenzio.
Gli episodi ed i nomi sopra richiamati si riferiscono, com’è evidente, alla sola vita politica del Paese e non contemplano le scelte di politica economica e finanziaria né, soprattutto, l’incidenza sul rapporto tra i cittadini e le istituzioni. Su entrambe le tematiche ha influito il crescente e, come pare, inarrestabile populismo: nato con la Lega Nord di Bossi, Borghezio, Castelli e soci, perfezionato col supporto mediatico da Berlusconi, ha raggiunto il suo apice con Salvini, Grillo e la stessa Meloni. Il populismo si è alimentato di razzismo, di delegittimazione delle istituzioni dello Stato, di promesse sconsiderate e ha contribuito insieme al cloroformio televisivo a ridurre il senso morale e critico degli italiani ad un livello che, ove mai fosse misurabile, li collocherebbe ai livelli più bassi dell’UE. Sul piano più strettamente economico come non ricordare l’assoluta assenza di controlli sui prezzi nel momento in cui (1° gennaio 2001) la lira cedeva il posto all’euro? Come dimenticare “lo scalone” pensionistico di Maroni e “quota 100” di Salvini o il superbonus 110% voluto dai grillini ed accettato dal PD, come sempre sotto il ricatto di andare ad elezioni anticipate ad altissimo rischio di sconfitta?
Riconducendo il discorso alla “felice” intuizione di Michele Serra dobbiamo sostanzialmente alla destra, quella che si proclama tale, ma anche quella che si celava dietro sembianze diverse e a volte opposte, il disastro in cui la parte ancora responsabile di questo Paese si agita e soffre. Si, perché addolora ed indispone assistere alla santificazione di Berlusconi, alla sua promozione a grande statista. Qualcosa di simile avvenne a suo tempo per Craxi e vorremmo sperare di non dover vedere altre assoluzioni, altri “Osanna in extremis”. La morte, ci dispiace per Totò, non dovrebbe mai essere una livella dei giudizi morali.
Aggiungerei , tra le gravi responsabilità di Veltroni , la legge elettorale condivisa con Berlusconi che tagliò per sempre dal Parlamento e dal dibattito politico del paese la presenza politica dei partiti minori . Partiti (veramente) di sinistra e (veramente) ambientalisti scomparvero dal Parlamento e quasi del tutto dai dibattiti televisivi , consentendo al PD di diventare un partito conservatore (per esempio quello di Renzi) come negli Stati Uniti i democratici sono a mala pena centristi. Abbiamo appreso quanto sia utile alla democrazia “il diritto di tribuna ” delle minoranze . La stessa legge elettorale poi tagliò le gambe allo stesso PD di Veltroni che senza l’appoggio dei partiti minori perse con largo distacco
Ottimo excursus tra le vicende politiche italiane da Tangentopoli ad oggi.