Il documentato articolo di Sergio Pollina sulle pagine di questo giornale ha posto una questione primordiale: la giustificazione di Dio di fronte alla sofferenza umana, specie quella del tutto immeritata dei bambini. Personalmente sono convinto che una risposta teorica al problema della teodicea non esiste; come ha scritto Hans Küng, «tentativi di soluzione in chiave mitologica non ci possono essere più di alcuna utilità: né l’ipotesi dualistica di due princìpi primordiali di ugual rango, l’uno buono e l’altro, cattivo, che impedisce al Dio buono di essere l’unico Dio (religione persiana, Marcione). Né la congettura per cui la colpa umana risalirebbe agli inizi, alle potenze angeliche distaccatesi da Dio; congettura che riporterebbe comunque a Dio il problema (apocalittica paleogiudaica). … Nella sua filosofia della storia universale Hegel ripeté il grande tentativo di una giustificazione di Dio … cercando di interpretare la storia universale, nella sua contraddittorietà, come evoluzione dello stesso spirito divino del mondo … La storia universale, cioè, come giustificazione di Dio e quindi come giudizio universale.» (H. Küng, Essere cristiani, Milano 1979, pp. 484 ss.)
Sfugge alla mente umana la ragione per cui non sia meglio fare a meno della sofferenza. Ma l’ateismo, non ponendosi il problema di Dio, spiega forse meglio il mondo? È capace di consolare l’uomo nella sofferenza ingiusta, insensata, incomprensibile? Può l’uomo con le proprie forze eliminare il dolore dell’umanità nelle sue molteplici forme, aggredendolo sul piano scientifico e tecnologico? Può accantonare i problemi dell’identità dell’uomo, del senso della vita umana nel suo complesso, del fondamento della morale? Di fatto, sostituendo l’uomo a Dio nella storia, si accusa l’uomo di essere autore di misfatti; quindi è l’uomo che ha bisogno di una giustificazione: invece di una teo-dicea ora occorre una antropo-dicea; come se, per usare ancora le parole di Küng, «la sofferenza storica fosse imputabile non a un soggetto, ma solo all’ambiente dell’uomo o alla sua pre-programmazione genetica o ai suoi impulsi o, genericamente, alle strutture individuali, sociali, linguistiche.»
La sofferenza in sé non pare essere un segno dell’assenza di Dio. Infatti, quando a credenti ebrei e cristiani si chiede ragione del loro atteggiamento, essi rimandano alle rispettive tradizioni, che sono diverse ma in rapporto tra loro. L’atteggiamento nei confronti della sofferenza è profondamente legato all’atteggiamento nei confronti di Dio e della realtà in genere: nella sofferenza l’uomo arriva al suo estremo limite, al problema decisivo della propria identità, del senso o del non-senso della sua vita. Quindi la sofferenza – individuale o collettiva che sia – se non è comprensibile dal punto di vista teorico, la si può superare nella pratica.
Le credenze sono conoscenze non verificabili con alcun criterio attuale, dunque la loro caratteristica comune è quella di essere un tipo di conoscenza di natura fideistica e, come chiaramente sintetizza Küng, «la fede non è mai un possesso sicuro, non la si ha mai, per così dire, “in tasca”. Anche dopo essermi deciso a credere – e una fede autentica deve nascere da una decisione -, non posso considerare questa mia decisione di fede come definitiva. E anche quando progredisco nel conoscere connesso alla mia fede, … devo prendere atto che la mia conoscenza di fede è seguita ovunque dall’ombra del dubbio. … Chi crede, come chi ama, non dispone di prove stringenti che gli garantiscano un’assoluta sicurezza.» (H. Küng, ivi, p. 175)
Il passaggio della credenza dalla fase mitologica a quella più raziocinante costituisce uno dei punti più importanti dello sviluppo storico delle religioni. Eppure, l’ateo continua a obiettare: “se si guarda al dolore nel mondo, non si può credere che esista un Dio”. Mentre il credente, capovolgendo l’affermazione, dirà: “solo se esiste un Dio si può resistere alla vista di quest’infinito dolore; solo grazie a una fede in un Dio incomprensibile si può attraversare il baratro del dolore e del male.” A sua volta l’ateo chiederà: “che Dio è questo Essere insensibile che lascia che l’uomo si dibatta nella sofferenza più profonda?” A questa domanda la risposta del credente sarà: “sono proprio la sofferenza e la morte di Gesù a farci apparire Dio in una luce diversa.” Quindi il credente non conosce una via che aggiri la sofferenza, ma conosce un percorso che l’attraversa e la supera.
Alcuni teologi ebrei, di fronte all’immensa sofferenza dell’Olocausto, preferiscono rinunciare a giustificare Dio, citano solo la frase lapidaria che conclude il racconto biblico della morte dei due figli di Aronne, uccisi dal fuoco divino: «Aronne tacque» (Levitico 10,3). Una sorta di “teologia del silenzio”.
In definitiva, all’interrogativo sulla sofferenza mi sembra che la risposta più pratica sia quella offerta da un antico detto ebraico: «Se conoscessi la risposta, sarei Lui».
Aveta, ancora una volta, non si smentisce. La lettura del suo intervento è uno stimolo all’ulteriore approfondimento della tematica in oggetto e ad una profonda riflessione che ci coinvolge tutti, perché tutti, prima o poi, in un modo o nell’altro, veniamo a contatto con la sofferenza, e darsi, o cercare di darsi, una spiegazione non è che il tentativo di ridurne l’impatto. Rimane, irrisolta, la domanda sul perché Colui che tutto può, rimanga inerte e assista alla sofferenza delle sue creature senza mai intervenire. Qualunque risposta, fideistica o meno, lascia inalterato il problema, anche se grandi menti sono intervenute fornendo la loro riflessione che, alla fine, lascia tutto com’è. L’intervento di Aveta, di certo, spinge tutti noi a dedicarci — come lui ha fatto — ad un’ulteriore ricerca, perché ognuno di noi, purtroppo, non può esimersi dal far parte della nutrita schiera di chi il dolore e la sofferenza li ha incontrati. Ancora grazie all’Autore per il suo prezioso intervento.