In questi giorni di gran caldo, rifugiarsi nella visione di vecchi film si rivela non solo un piacevole svago, ma anche un’opportunità per apprezzare veri capolavori artistici che mantengono una sorprendente attualità. Nel mondo del cinema, l’incontro tra arte e politica ha spesso generato opere in grado di scuotere le coscienze e offrire prospettive critiche sulla società. La settima arte spesso agisce come uno specchio della collettività, riflettendo le sue contraddizioni, i suoi conflitti e le sue sfide. Negli anni Settanta del secolo scorso il regista Elio Petri, l’attore Gian Maria Volonté ed il musicista Ennio Morricone proposero una trilogia di capolavori che ancora oggi colpiscono per la profonda somiglianza con il mondo contemporaneo.
Primo in ordine cronologico Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto del 1970. Il film, che sfuggì alla censura per puro caso, affrontava con uno sguardo cinico ai limiti del grottesco temi intorno al potere, alla corruzione e all’impunità. Protagonista della trama il “Dottore”, dirigente della squadra omicidi della polizia, appena promosso a capo dell’Ufficio Politico, interpretato magistralmente da Gian Maria Volonté. Affascinante figura di “uomo forte”, carismatico, distinto, la sua figura domina la scena profondendo un senso di rispetto e deferenza nei colleghi. Il Dottore nasconde però un lato oscuro: si sente il membro di una ristretta cerchia che esprime l’incarnazione stessa delle leggi. La posizione di potere lo mette al di sopra di ogni sospetto, consentendogli di commettere crimini senza paura di conseguenze. Arriva addirittura ad assassinare l’amante e a depistare le indagini: pur disseminando indizi della sua colpevolezza ovunque, pur mostrandosi ai testimoni sul luogo del misfatto, nessuno lo accusa grazie alla posizione preminente occupata all’interno delle forze dell’ordine. Il film, inserito nelle 100 pellicole da preservare dal Ministero della Cultura nel 2008, fu premio Oscar del 1971 nella categoria “miglior film straniero”, ha un messaggio centrale che rimane ancora estremamente attuale. L’impunità legata al potere risuona profondamente nella società contemporanea, in cui spesso vediamo figure influenti eludere la giustizia. La società moderna è ancora testimone di individui che sembrano sfuggire alle conseguenze delle loro azioni, grazie all’uso manipolativo del sistema inquisitorio.
Altro film di denuncia, stesso regista, stesso attore, altro capolavoro. La classe operaia va in paradiso è un film del 1971 che affronta in modo profondo il tema dell’alienazione causata dal lavoro e la lotta dei lavoratori per il riconoscimento dei loro diritti. La trama segue la vita di Lulù Massa, un operaio in una fabbrica di macchine utensili. Il Massa è un uomo dedito al lavoro ed affezionato ai suoi “padroni”, gradualmente però inizia a sentire che la sua vita gli sta sfuggendo di mano. Il lavoro a cottimo, gli straordinari per potersi permettere una vita dignitosa iniziano a minare il suo fisico e la sua mente. Dopo un incidente sul lavoro che gli provoca la perdita di un dito, Lulù inizia a coltivare una crescente consapevolezza politica e si unisce a un gruppo di attivisti sindacali. La sua partecipazione alla protesta lo porta in conflitto con i colleghi che non condividono la sua posizione (abolizione del cottimo e aumento immediato della paga oraria). La trama esplora temi di sfruttamento, alienazione, lotta di classe e ricerca della dignità nella società industriale. L’alienazione causata dal lavoro è un fenomeno ampiamente discusso in ambito sociologico ed economico. Si riferisce alla perdita di senso di sé e della propria creatività a causa di un’attività che è frammentata, monotona e spesso priva di significato personale. Questo tipo di operosità può portare a una sensazione di disconnessione dalle proprie azioni e a una mancanza di soddisfazione nel contribuire al processo produttivo. La classe operaia va in paradiso mette in rilievo l’importanza di considerare il benessere e la dignità dei lavoratori in un sistema economico dove la logica dello sfruttamento appare fin troppo evidente. Il film riflette una realtà ancora rilevante in cui la sfida è quella di creare condizioni lavorative che permettano alle persone di sentirsi realizzate e appagate, senza dover rinunciare alla loro umanità nel processo produttivo. Purtroppo, a tutt’oggi, l’istituto contrattuale del lavoro straordinario è l’unica strada percorribile dai lavoratori di alcune categorie (i working poors) per veder aumentare i loro salari con il risvolto negativo di mantenere il ciclo dell’alienazione, finendo per dedicare sempre più tempo al lavoro a discapito della propria salute mentale e del benessere familiare.
Ultimo capitolo della trilogia sociale è Todo modo, film del 1976 interpretato da Gian Maria Volonté al fianco di Marcello Mastroianni e Ciccio Ingrassia. Tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, racconta di un ritiro spirituale di un gruppo di politici democristiani in un convento, dove si svolgono misteriosi omicidi. Satira feroce della classe dirigente italiana degli anni Settanta, che mescola elementi grotteschi, thriller e politici. Il titolo si riferisce alla formula tratta dagli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola, fondatore dell’ordine dei Gesuiti, “Todo modo para buscar la voluntad divina”, cioè “ogni maniera (è buona), per cercare la volontà divina”. L’opera era criptica, dal marcato sapore espressionista ed aveva l’obiettivo dichiarato di accusare la corruzione, il malcostume, l’imperversare di interessi personali nella gestione della res publica italiana, ricorrendo al grottesco come unica arma possibile per denunciare senza incorrere in censure particolari. La pellicola originale fu sequestrata a meno di un mese dalla sua uscita e ritrovata bruciata presso gli archivi di Cinecittà. Secondo Wikipedia ancora oggi si cerca ancora la pellicola originale.
Opere coraggiose, forse apicali, del cinema di protesta negli anni di piombo, che andrebbero visti e rivisti, magari confrontandoli con la mediocrità di tanti film attuali, finanziati con i fondi pubblici, ed etichettati: “Film riconosciuto di interesse culturale” con il logo del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali che sovrasta la dicitura. Qualche esempio: “Che bella giornata” di Checco Zalone (6.000.000 di euro di finanziamento), “Immaturi” (2.500.000), “Qualunquemente” (2.400.000), “Maschi contro Femmine” (1.900.000), “Nessuno mi può giudicare” (1.163.000).
Si potrebbe malignamente pensare al sistema dei finanziamenti come ad una raffinata e subdola forma di censura (preventiva), mascherata da liberalità di Stato, per evitare critiche politiche e sociali attraverso film che raccontino, veramente, la realtà in cui viviamo…
Mala tempora currunt.