Siamo nel 1946, nel buio dei giorni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, quando l’Europa cercava di rimettersi in piedi tra le macerie della devastazione, nacque un accordo destinato a scrivere un capitolo di speranza. Tuttavia, da uno scambio apparentemente benintenzionato, emerse un dramma umano dalle proporzioni agghiaccianti. Questo patto, noto come “Accordo Italo-Belga”, non solo segnò un punto di svolta nella storia delle migrazioni italiane, ma gettò un’ombra indelebile sulla dignità umana. Un’ombra che continua a gettare una luce sconcertante sulle sfide migratorie ancora oggi.
Il 23 giugno 1946, il presidente Alcide De Gasperi firmò, con il suo omologo belga Achille Van Acker, un trattato di cooperazione tra i due Paesi: l’Italia si impegnava a fornire mano d’opera (63mila unita in cinque anni) al paese fiammingo mentre il Belgio, che a sua volta accoglieva gli operai italiani nelle sue miniere estrattive, avrebbe venduto all’Italia il carbone ad un prezzo di favore. Nell’era in cui il carbone era prezioso come l’oro e le economie erano ancora ferite dalla guerra, l’accordo sembrava un barlume di speranza per entrambi i Paesi. Ma come spesso accade nei drammi più strazianti, l’intento positivo dietro l’accordo si trasformò in un incubo. Questi i termini reali del patto: trasferimento di 50.000 minatori italiani al ritmo di 2.000 a settimana. In cambio il Governo belga si impegnava a vendere mensilmente all’Italia un minimo di 2.500 tonnellate di carbone ogni 1.000 minatori immigrati. Questo patto, che successivamente venne chiamato “UOMO per CARBONE”, prevedeva 5 anni di miniera per ogni operaio, con l’obbligo tassativo, pena l’arresto, di farne almeno uno.
Gli emigranti italiani, provenienti prevalentemente dalle regioni meridionali del Paese, affrontarono il freddo abbraccio delle miniere belghe, con la promessa di un salario e una vita migliori. Invece, si trovarono a lavorare in condizioni pericolose e insalubri, con le norme di sicurezza ignorate e i diritti calpestati. Erano prigionieri dell’oscurità sottoterra, i loro volti e le loro speranze oscurati dall’avidità e dall’indifferenza. Un loop di turni massacranti, dove il concetto di orario sembrava dissolversi in un tormento senza fine. L’alba e il tramonto erano solo sfumature lontane nelle gallerie profonde diverse centinaia di metri, mentre il lavoro non conosceva sosta. Le condizioni di vita erano altrettanto spaventose, con alloggi sovraffollati e freddi. Un limbo di stenti e rinunce, dove l’umanità degli immigrati veniva sacrificata sull’altare del profitto. Gli stessi si trovavano spesso segregati, separati dalla comunità locale e costretti a vivere ai margini della società. Erano come catene invisibili che li tenevano prigionieri dell’alienazione, delle barriere linguistiche, dei pregiudizi culturali e religiosi (infatti gli italiani venivano appellati dispregiativamente dalla gente del luogo “Rital” cioè baciapile). Una segregazione che perpetuava l’ingiustizia e faceva crescere il divario tra chi li sfruttava e chi veniva sfruttato.
La tragedia di Marcinelle, avvenuta la mattina del 8 agosto 1956 nella miniera Bois de Cazier, strappò il velo d’indifferenza e mostrò al mondo le condizioni dei lavoratori delle miniere. L’esplosione che si verificò all’interno del pozzo di scavo a quota -936 metri, portò alla morte di 262 minatori, 136 dei quali erano italiani. Quel giorno le vene della terra si tinsero di dolore e tragedia, mentre le vite di tanti operai e le loro famiglie venivano infrante. Ma quella tragedia non fu solo una strage nel buio, fu un grido che riecheggiò attraverso il tempo, richiamando l’attenzione sulle ingiustizie e la sofferenza che erano state nascoste troppo a lungo. Nei giorni del dramma da Roma non si mosse alcuna autorità istituzionale dal Presidente del Consiglio Segni a quello della Repubblica Gronchi. E anche dopo i familiari delle vittime denunciarono la lontananza dello Stato italiano. Dal 1946, anno in cui Belgio e Italia siglarono l’accordo bilaterale, al 1956 nelle miniere belghe persero la vita 1.164 minatori, 435 dei quali italiani.
Oggi, nuovi popoli si affacciano sui litorali italiani. Migranti che cercano rifugio e speranza vengono respinti, respinti come fantasmi da una società che ha imparato troppo poco dal passato. In un mondo in cui la globalizzazione dovrebbe abbattere le barriere, le narrazioni di rimpatrio sembrano echeggiare gli stessi errori commessi nel passato.
In un mondo avvolto dalle fiamme delle ingiustizie e delle sofferenze, la tragedia di Marcinelle ci ammonisce a non dimenticare. Ci ricorda che il desiderio di una vita migliore è universale e che il nostro compito è cercare soluzioni umane e giuste. Poiché ogni emigrante è un individuo, non solo un numero su un documento. Come scriveva Victor Hugo: “L’uomo è buono, ma l’uomo è anche cattivo, l’uno prevale sull’altro a seconda delle circostanze.” Che le circostanze presenti possano essere un richiamo alla compassione e all’umanità, piuttosto che all’indifferenza e alla cattiveria.