Non avrebbe sentito quei primi cinque secondi di vibrazione dell’iPhone neanche se avesse avuto l’apparecchio incollato all’orecchio.
Solo quando la suoneria attaccò con “Take Five”, il commissario Iezzo si destò dal torpore di un sonno sopraggiunto a notte inoltrata.
Anche in quello stato di semicoscienza, tipico del dormiveglia, la sua passione per il jazz riusciva ad avere la meglio e l’obbligo di rispondere, a quella che sicuramente era una chiamata dall’ufficio, sfumava sulle note di Dave Brubeck.
Il protrarsi di quel refrain, per quanto fosse piacevole da ascoltare, non era però foriero di buone notizie: quell’insistenza annunciava l’arrivo di una rogna di dimensioni ragguardevoli.
Pasquale Iezzo avrebbe scommesso un mese di stipendio che a telefonargli fosse l’ispettore Franzese: un poliziotto di una pignoleria che gli dava sui nervi, specie quando gli faceva rapporto sullo stato di avanzamento di un’indagine.
Era così prolisso nel parlare che Iezzo si era ormai convinto che Franzese amasse ascoltare il suono monocorde della sua stessa voce.
Se qualcuno poi provava a tirare le somme del ragionamento e a farla breve, l’ispettore, dopo aver ascoltato in religioso silenzio il suo interlocutore, riprendeva il filo del discorso dal punto esatto in cui era stato interrotto: in quel caso era meglio avere una scusa plausibile per allontanarsi rapidamente.
Tuttavia Iezzo provava un misto di pena e tenerezza nei confronti di quel poliziotto, pensando ai limiti invalicabili che si ergono di fronte ai tanti Franzese incapaci di maneggiare sapientemente l’italiano: ‘La prima lingua straniera che si studia, male, nel nostro Paese’, amava ripetere a se stesso ogni volta che si trovava al cospetto di una storpiatura grammaticale o sintattica o, come nel caso dell’ispettore, all’incapacità di sintetizzare anche il più elementare dei concetti.
Se la sintesi era davvero un dono, Franzese di sicuro non era presente quando l’avevano distribuito.
“Dimmi Franzese – esordì il commissario rispondendo al telefono senza neanche attendere che l’altro si qualificasse – cosa è successo?”
“Buongiorno dottore, ma come facevate a sapere che ero io? Vi sto chiamando dal telefono dell’ufficio, mica dal mio cellulare!”
“Sesto senso ispettore; e poi che ci vuoi fare, non si diventa commissari di polizia così per caso” rispose Iezzo con quella vena di sarcastica ironia cui ricorreva spesso nel tentativo di alleggerire la pesantezza dei dialoghi con Peppino Franzese.
“Dottore, alle otto precise di questa mattina ha telefonato in commissariato la signora Pettinelli Elvira, era sconvolta e chiedeva l’intervento della polizia in via Verdi 19 dicendo di aver trovato il cadavere di un uomo. Il piantone, la guardia scelta Amato Nicola, mi ha passato subito la chiamata e ho inviato immediatamente una volante sul posto; prima di recarmi anch’io lì ho ritenuto opportuno avvisarvi senza ulteriori indugi.”
“Va bene ispettore ci vediamo in via Verdi 19, diciamo fra una mezz’oretta al massimo. A dopo” disse Iezzo e chiuse la conversazione senza lasciare al sottoposto la possibilità di trattenerlo ancora al telefono: avrebbe chiesto ulteriori ragguagli una volta giunto sul posto.
Via Verdi distava cinque minuti a piedi da casa sua.
Dopo una rapida doccia e il tempo di vestirsi, in poco più di un quarto d’ora Iezzo era già per strada.
Il civico 19 di via Verdi era una residenza signorile d’inizio Novecento, un tempo appartenuta a un nobile caduto in disgrazia per aver dilapidato una piccola fortuna al gioco e con le donne.
Dopo il secondo dopoguerra, il palazzo aveva cominciato a passare di mano in mano, per diventare alla fine proprietà di un’immobiliare che aveva trasformato il fabbricato, ricavandone una serie di lussuosi uffici da affittare a facoltosi professionisti.
Appena varcato il portone, il commissario Iezzo si ritrovò l’ispettore Franzese piantato lì davanti con il suo inseparabile taccuino su cui annotava anche i più insignificanti dettagli raccolti sulla scena del crimine.
Nell’osservare i fogli penzolanti dalla spirale metallica del bloc-notes, Iezzo pensò che Franzese stesse provando a descrivere, con le parole, l’immagine del delitto: un dispendio di energie inutile, considerati i rilievi fotografici della scientifica.
“In questo stabile – esordì il solerte ispettore, quasi col piglio della guida turistica che accompagna i gruppi di visitatori nei musei – la signora Pettinelli Elvira fa le pulizie delle scale, dalle 7 alle 9, nei giorni dispari. Comincia sempre dal piano più alto e quando è giunta al primo, ha notato una porta socchiusa; il che l’ha lasciata perplessa, sapendo che la segretaria che apre l’ufficio, tale signorina Ruocco, di cui la Pettinelli dice di non aver mai saputo il nome di battesimo, arriva sempre alle otto e cinquanta, poco prima che lei vada via. Allora la Pettinelli, per far presente a chi fosse entrato nello studio di aver lasciato la porta aperta, ha bussato al campanello e non avendo ricevuto risposta alcuna si è affacciata nell’ingresso. È stato in quel momento che ha scoperto il cadavere di un uomo ed è corsa via in preda al panico; una volta giunta nel cortile, dove ci troviamo noi adesso, con il suo cellulare ha telefonato al commissariato per denunciare l’accaduto”.
“Conosciamo il nome del morto?”, chiese Iezzo incamminandosi verso le scale che l’avrebbero portato al primo piano del palazzo.
“Si tratta di Alfredo de Silvestri, – rispose pronto Franzese seguendolo – uno dei commercialisti titolari dello studio”.
Sul pavimento della saletta d’ingresso, illuminato dai flash della polizia scientifica, giaceva, riverso sul fianco sinistro, il corpo senza vita di quello che doveva essere stato un uomo sulla cinquantina, curato nell’abbigliamento e che da vivo, almeno all’apparenza, doveva essere stato in buona forma fisica.
Iezzo ripensò alle ore trascorse sulla sua ipertecnologica cyclette che, per quanti sforzi facesse e a dispetto della copiosa sudorazione, non lo portava mai da nessuna parte; di sicuro era ben lontano dallo smaltire i chili accumulati con le trasgressioni culinarie cui spesso amava abbandonarsi.
‘Uno spreco di tempo’ rifletté pensando alle migliaia di chilometri macinati nel chiuso di casa sua, mentre osservava quel corpo senza vita, che pure doveva aver trascorso chissà quante ore in palestra.
Il cadavere del dottor de Silvestri presentava, a prima vista, una lacerazione sulla parte posteriore del capo, più precisamente all’altezza della nuca.
“Un colpo solo, sferrato con violenza, vista la profondità della ferita; probabilmente non più di 12 ore fa, ma saprò essere più precisa solo dopo l’autopsia, sia sull’orario che sull’oggetto con cui è stato colpito. Va bene, Pasqualino?”
Pasqualino!
Da quando la buonanima di sua madre era morta, era rimasta solo lei a chiamarlo con quel diminutivo: Franca Marino, medico legale e amica d’infanzia di Pasquale Iezzo. Con i suoi cinquant’anni, portati così bene da dimostrarne una decina di meno, la dottoressa Marino faceva ancora girare la testa agli uomini, per quella naturale sensualità che permeava il suo modo di muoversi e di parlare. Cresciuti nello stesso quartiere, sin da bambini erano sempre stati molto legati l’uno all’altra. Stesse elementari, stesse medie e stesso liceo; solo all’università le loro strade si erano divise. Pasquale si era laureato in giurisprudenza e Franca in medicina; e quando lui aveva vinto il concorso in polizia, dopo poco lei aveva conseguito la specializzazione in medicina legale. Per Pasquale Iezzo, Franca era la sua unica, vera amica; per Franca, Pasqualino era più di un amico. Single per scelta, e non perché le fossero mancate le occasioni, la dottoressa Marino aveva assistito prima alle nozze e poi al naufragio del matrimonio di Iezzo: soffrendo per se stessa al principio e per il suo Pasqualino alla fine. Ma anche ora, che era libero da vincoli di coppia, il commissario non riusciva a capire che Franca era innamorata di lui, da sempre.
“Ciao Franca, non sapevo che fossi già qui”
“Ero di là a parlare con i colleghi della scientifica. Sono arrivata poco prima di te e poiché Franzese ti faceva il suo dettagliato resoconto, e non volevo interrompervi, – disse Franca in tono ironico – ho cominciato a raccogliere questi primi elementi: so quanto ci tieni ad avere un quadro preciso della situazione nel minor tempo possibile”.
Mentre si chinava sul cadavere per tornare a esaminarlo, notò che lo sguardo del suo amico, fatto veramente insolito per lui, si era soffermato sulla scollatura della sua camicetta: Pasqualino le stava guardando il seno!
Con nonchalance fece finta di non aver visto dove si era soffermato lo sguardo del sobrio Iezzo, ma quell’occhiata fugace, colta al volo, la interpretò come una incrinatura nel bozzolo in cui Pasquale si era rinchiuso dopo il divorzio.
Più tardi, al commissariato, mentre stava provando a fare il punto sull’omicidio del dottor Alfredo de Silvestri, Iezzo fu raggiunto da Donatella Aspergi, la moglie, o meglio, la vedova del commercialista.
La Aspergi era una donna dotata di una eleganza naturale, di quelle che si incontrano raramente e che non riuscirebbero a risultare volgari neanche se lo volessero essere intenzionalmente, ‘insieme al marito dovevano fare proprio una bella coppia’ pensò il commissario appena si fu accomodata dall’altro lato della scrivania.
“Le esprimo il mio rammarico per l’accaduto. L’ho pregata di raggiungermi subito in commissariato perché ritengo che le ore immediatamente successive alla scoperta di un delitto siano cruciali per la ricostruzione dei fatti”.
“Capisco”
“Signora Aspergi, chi poteva volere la morte di suo marito?”
“Commissario, Alfredo era uno stimato commercialista, con una clientela facoltosa e non mi risulta che qualcuno si sia mai lamentato del suo lavoro o abbia avuto con lui diverbi tali da poter sfociare in un’aggressione”
“Quindi lei esclude che qualcuno potesse provare risentimenti dovuti all’attività professionale?”
“Nel modo più assoluto”
“Di recente ha avuto occasione di notare un atteggiamento diverso dal solito o qualcosa di strano nel comportamento di suo marito?”
Donatella Aspergi per un attimo abbassò lo sguardo, per poi rispondere: “No, anzi. Negli ultimi tempi era particolarmente di buon umore: presumo per il buon andamento dello studio”.
“Che cosa può dirmi dei due soci di suo marito, Gianluca Pisanti e Antonio Della Monica?” chiese Iezzo scorrendo l’informativa dell’ispettore Franzese.
“Gianluca e Antonio erano compagni d’università di Alfredo e vent’anni fa decisero di aprire insieme lo studio di via Verdi. In seguito hanno aperto altre due sedi dell’ufficio, a Milano e a Ginevra. Sono sempre stati intraprendenti, tutti e tre, anche se il vero motore delle attività dello studio era Alfredo”.
“Quali erano i rapporti fra i tre?”
“Buoni, molto buoni direi, visto che ci frequentiamo anche con le rispettive famiglie da quando loro sono in affari insieme e non ci sono mai stati screzi di alcun genere”.
“E i suoi rapporti con suo marito com’erano?”
La domanda, sparata a bruciapelo da Iezzo, sembrò non cogliere la donna alla sprovvista, quasi se lo aspettasse.
Tuttavia al commissario non sfuggì l’impercettibile inarcarsi di un sopracciglio della donna che precedette di un istante la risposta.
“Alfredo ed io siamo sposati…eravamo sposati da più di vent’anni; abbiamo due figli e il nostro è sempre stato un rapporto sereno, leale, basato sulla fiducia reciproca e un grande affetto che ci ha sempre legati. Non voglio neanche supporre che lei possa pensare che io abbia a che fare con la morte di mio marito” concluse la signora Aspergi, ostentando un accenno di risentimento nei confronti del poliziotto per quella domanda che considerava quasi un’insinuazione.
“Al momento non penso nulla – ribatté freddo Iezzo – ma di fronte a un morto ammazzato non ho esitazioni a fare domande di alcun genere, se le risposte mi possono mettere sulle tracce dell’assassino. Comunque per il momento non ho altre domande da farle e la ringrazio per la sua disponibilità”.
“Anzi, un’ultima cosa devo chiedergliela – disse Iezzo mentre congedava la donna –: come mai non si è preoccupata non vedendo rientrare suo marito a casa ieri sera?”
“Nel tardo pomeriggio mi aveva avvisato che aveva un lavoro urgente da svolgere e, se si fosse protratto a lungo, si sarebbe trattenuto a dormire nella foresteria dello studio: il che non era insolito”.
Poi fu la volta dei soci di Alfredo de Silvestri.
Il primo a essere ascoltato da Iezzo fu Gianluca Pisanti, un bell’uomo sui cinquanta, dalla parlantina fluida e, almeno all’apparenza, molto sicuro di sé.
“Mi perdoni se arrivo subito al punto – esordì Iezzo lasciando intendere al commercialista che non aveva nessuna voglia di girare intorno all’argomento – immagino si sarà chiesto chi potesse volere la morte del suo socio”.
“Ci ho pensato, non glielo nascondo, ma non mi viene in mente nessuno che potesse provare un tale risentimento nei confronti di Alfredo da arrivare a ucciderlo. Il nostro è uno studio molto ben avviato, con una clientela scelta e facoltosa che ci garantisce un introito ragguardevole. Curiamo gli investimenti dei nostri assistiti, garantendo loro considerevoli profitti. Offriamo una consulenza a 360° di cui sono tutti più che soddisfatti. Quindi, escluderei l’ambito professionale dalla ricerca dell’assassino”.
A Iezzo apparve subito chiaro che Pisanti volesse tenere lo studio al riparo da eventuali ripercussioni negative che potessero scaturire dall’omicidio del socio: il poverino era morto, ma gli affari venivano prima di tutto!
Ascoltando il terzo associato, Antonio Della Monica, appena rientrato da una trasferta di ventiquattrore allo studio di Milano, il commissario ebbe tutt’altra impressione.
Visibilmente scosso, l’uomo sembrava seguire il filo immaginario dei propri pensieri, alla ricerca affannosa di una motivazione che facesse luce sull’accaduto.
“Alfredo era l’anima dello studio – esordì Antonio con un filo di voce – Gianluca e io abbiamo solo messo in campo le nostre competenze professionali, ma i clienti li procurava Alfredo. Lo studio di via Verdi, il primo che abbiamo aperto vent’anni fa, non è nato dal nulla. I primi clienti li abbiamo, come dire, “ereditati” dal papà di Donatella, il dottor Nicola Aspergi. Agli inizi lavoravamo tutti e tre alle sue dipendenze; poi Alfredo sposò Donatella e quando di lì a poco il vecchio ebbe un infarto e morì decidemmo di aprire uno studio tutto nostro: per i clienti che già ci conoscevano fu naturale seguirci. Da quel momento è stato un crescendo professionale che ci ha portato a espandere la nostra attività di consulenza prima a Milano e poi a Ginevra. Chi può aver ucciso Alfredo?” chiese Antonio torcendosi le mani sudate.
“Veramente questa domanda vorrei farla io a lei, casomai avesse qualche sospetto” disse Iezzo osservando quell’uomo in preda all’ansia.
“Io, commissario, e cosa posso saperne?”
“Dottor Della Monica, non dico che lei ne sappia qualcosa, ma mi piacerebbe conoscere il suo punto di vista in proposito. So che oltre ad essere soci eravate amici e che le vostre famiglie si frequentano abitualmente. Fra ciò che mi ha raccontato, le notizie apprese da Gianluca Pisanti e quanto mi ha detto la signora Aspergi è emerso un quadro di rapporti professionali, familiari e personali idilliaci; ma, se Alfredo de Silvestri poche ore fa è stato ucciso, converrà che in quest’affresco c’è qualche sbavatura e vorrei che lei mi aiutasse a individuarla”
“Mi dispiace ma non saprei che dirle – rispose evasivo Della Monica provando a uscire dall’angolo in cui lo stava stringendo Iezzo – Alfredo era mio socio e mio amico e non immagino chi possa averlo assassinato”
‘Per adesso può bastare così’ pensò il poliziotto accomiatando il dottor Della Monica.
L’ultima a essere interrogata fu Elena Ruocco, la segretaria dello studio.
La Ruocco era alle dipendenze dei tre commercialisti da vent’anni.
All’epoca, con un diploma in ragioneria e la perfetta conoscenza della lingua inglese, era stata scelta fra diverse aspiranti: da allora aveva sempre lavorato lì.
“Signora Ruocco, immagino che anche lei non stia passando un bel momento, ma – le annunciò Iezzo con tutta la sensibilità di cui era capace – ho bisogno di farle alcune domande: se la sente di rispondere?”
Gli occhi della segretaria gonfi di lacrime erano il sintomo di un dolore che meritava rispetto, e quella donna era l’unica, fra le persone interrogate quella mattina, che aveva pianto per la morte di Alfredo de Silvestri.
“Chieda pure, commissario, per quello che posso…”
La dolcezza della voce e il garbo dei modi, con cui Elena dichiarò la propria disponibilità a rispondere, colpirono Iezzo, che già aveva avuto modo di notare una complessiva piacevolezza della figura della donna.
“Quando ha visto Alfredo de Silvestri l’ultima volta?”
“Il giorno in cui il dottor de Silvestri è stato ucciso, sono stata allo studio dalle 9 alle 18, come faccio ogni giorno. Il dottore è arrivato intorno alle 10 e si è trattenuto fino alle 12 e 30. Quando è uscito, mi ha detto che sarebbe andato un’oretta in palestra e poi a pranzo con un cliente. È tornato allo studio intorno alle 15 e 30 ed era ancora lì quando sono andata via alle 18. Quella è stata l’ultima volta in cui l’ho visto”
“Se ho ben capito, lei lavora in quello studio sin dalla sua costituzione: com’erano i rapporti tra i tre soci?”
“Da quello che so, loro già lavoravano insieme alle dipendenze del dottor Aspergi, il padre della signora Donatella; poi quando il titolare morì improvvisamente, a causa di un infarto, decisero di creare un nuovo studio associato e si trasferirono nell’attuale sede, più prestigiosa, di via Verdi 19. Sono sempre andati d’accordo fra loro, ma era Alfredo, il dottor de Silvestri, il vero motore dello studio. È stato lui a promuovere l’apertura delle sedi di Milano e Ginevra e questo ha dato un ulteriore slancio alla loro attività. Lo so perché spesso accompagnavo il dottor de Silvestri presso le altre sedi per coordinare l’attività delle segretarie che lavorano lì”
“Desumo che de Silvestri ritenesse prezioso il suo contributo per il buon funzionamento della rete degli uffici”
“Il dottore – precisò Elena Ruocco con una punta di orgoglio – si fidava della mia capacità organizzativa: una fiducia che, mi creda, ho guadagnato sul campo, in anni di puntuale ed efficiente lavoro svolto al fianco dei tre soci”
“La ringrazio, signora Ruocco. Al momento non ho altro da chiederle. Se dovessi avere ancora bisogno di lei, glielo farò sapere”
“Disponga pure di me, commissario, e spero che riusciate a trovare chi ha ucciso il dottor de Silvestri: non meritava di finire così”
Congedata la segretaria dello studio, Iezzo pensò che, per quelle prime ore d’indagine, non avesse molto, tranne alcune impressioni su cui avrebbe riflettuto con calma.
Così decise che sarebbe andato da Franca per sapere se c’erano novità sull’ora e la dinamica del delitto.
Prima, però, l’attendeva il resoconto di Franzese, che era andato in giro a fare domande con il suo inseparabile taccuino; per cui fece un bel respiro, bussò ed entrò nella stanza dell’ispettore.
Continua …