È di pochi giorni fa (5 luglio 2023) la notizia della morte di Marcello Colasurdo, forse l’ultimo grande maestro del canto ‘a Figliola e del canto ‘a Fronna. La sua voce profondamente ancestrale, che sapeva suscitare brividi in chi ascoltava, non intonerà più strofe e ballate dialettali. Un vuoto incolmabile in chi apprezzava il suo lavoro, orfano oramai delle melodie celestialmente soul vibrate in occasioni di feste popolari o festival internazionali, senza risparmiarsi, in oltre quarant’anni di carriera.
Nel documentario di Salvatore Piscicelli “la canzone di Marcello” l’artista si racconta: è un figlio del popolo, nato per caso a Campobasso nel 1955 dove la madre lo concepisce mentre è impegnata nella raccolta stagionale delle olive. Essendo una ragazza madre e non avendo la possibilità materiale di accudire il figlio, la donna lo affida alla Casa dell’Annunziata, l’orfanotrofio napoletano che in oltre nove secoli ha assistito milioni di giovani del meridione.
È un periodo difficile quello dell’infanzia, la mancanza della mamma innanzitutto gli provoca dolore. È anche questo però il periodo dove maturano due passioni che lo accompagneranno per tutta la vita, il canto e la devozione alla Vergine Schiavona, la mamma che tutto vede e tutto perdona. Ritornato a casa all’età di 15 anni il giovane Marcello si scontra con le difficoltà del quotidiano. La madre vive in una stanza di pochi metri quadri e fa diversi lavori per aiutare economicamente il padre putativo che si spacca la schiena in campagna per una misera paga. Vivono a Pomigliano d’arco, paese simbolo della brutale transizione dalla realtà lavorativa contadina, con i suoi cicli e tradizioni, al lavoro frenetico delle fabbriche e dei tempi serrati della catena di montaggio. Sullo sfondo, Napoli, le sue contraddizioni, e una società tutta che, con strappi drammatici e dolorose accelerazioni, da agricola sognava di divenire industriale.
Marcello riesce ad entrare all’Alfasud come addetto alle pulizie, lì conosce i fondatori del gruppo ‘e Zezi, operai come lui ma anche artisti ed intellettuali. Mentre nei collettivi delle grandi fabbriche del nord (come la Pirelli e la Sit-Siemems) gli operai e gli studenti iniziavano a radicalizzarsi dando vita al fenomeno terroristico del brigatismo, lo scopo di quelli dell’Alfa di Pomigliano è di “aggregare esperienze e vissuti dell’entroterra napoletano intorno ad un progetto comune di riscatto sociale attraverso le arti”. ‘E Zezi non rinunciano all’antagonismo, combattano il Sistema con nacchere e tammorre. Utilizzando le forme espressive della tradizione popolare, dal messaggio immediato, per veicolare le grida di denuncia sulle condizioni dei lavoratori. La voce di Marcello Colasurdo, dalla struggente bellezza, rimane lo stendardo del gruppo per oltre un ventennio. Anni di successi che hanno generato pezzi indimenticabili come “‘O Vesuvio” e “Auciello do mio posa ‘e sorde”.
L’imponente presenza scenica, la capacità coreutica fanno di Marcello un personaggio riconoscibilissimo, un mix tra uno sciamano ed un musicista Indy. Fioccano le collaborazioni con registi del calibro di Federico Fellini, Mario Martone, Roberto De Simone e musicisti come Peter Gabriel. Lo stesso ex Genesis comincia a produrre la sua musica e lo invita a partecipare ai concerti internazionali del circuito Womad, i festival di musica etnica promossi dallo stesso musicista inglese. Qui Colasurdo raggiunge notorietà planetaria. Gli anni passano, il suo linguaggio musicale si evolve, si contamina con la partecipazione a diverse esperienze con gruppi impegnati nella lotta politica, dai Modena City Ramblers agli Almamegretta, dai 99 Posse a Daniele Sepe. Antagonismo e protesta, rivendicazioni dei diritti individuali e collettivi, una vita sempre all’opposizione a sgolarsi e combattere per gli ultimi con la propria arte.
Un percorso artistico che non lo ha fatto arricchire: è di febbraio scorso la notizia che il sindaco di Pomigliano aveva richiesto per l’artista l’accesso ai fondi della legge Bacchelli, ma sicuramente la pecunia non era tra le priorità di Marcello. Forse davvero Colasurdo era uno sciamano che con la sua tammorra cercava di esorcizzare i nuovi demoni della globalizzazione, della discriminazione di genere, dell’omologazione culturale. Addio cantore degli ultimi, porta il tuo canto alla Mamma Schiavona, noi, per lutto, appenderemo ai salici le nostre tammorre.