Diario di uno che vorrebbe capire: 9 giugno 2023

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Schiacciati tra l’intelligenza artificiale e la stupidità naturale sperando che non si incrocino mai, non ci resta che cercare un rifugio nell’umorismo che poi, anche quando sfiora il “nonsense” o ci casca dentro, altro non è che la sublimazione di una realtà altrettanto priva di senso; sciagure, catastrofi e cataclismi hanno tutti la loro buona dose di assurdità. Come la follia omicida che è diventata un doloroso problema nazionale. Un tempo non era così, benché la violenza maschile fosse più radicata e, forse proprio per questo, meno avvertita dalla società.

“Si avisse fatto a n’ato
Chello ch’hê fatto a me
St’ommo t’avesse acciso
E vuó’ sapé pecché?
Pecché ‘ncopp’a ‘sta terra
Femmene comm’a te
Nun ce hann’a stá pe’ n’ommo
Onesto comm’a me”

Così scriveva Totò nel lontano 1951 vantando, inconsciamente, la generosità con cui aveva risparmiato una morte violenta, ma meritata, alla sua fedifraga “Malafemmina”. E nessuno ci faceva caso. Tanto per restare nell’ambito della musica leggera, le assurdità all’epoca non mancavano: la questione sociale, ad esempio, era assorbita dalle masse popolari senza particolari risentimenti. In “Papà Pacifico”, lanciata da Nilla Pizzi nel 1953, si legge:

Il buon Papà Pacifico,
per nostra gran fortuna,
possiede un flauto magico
che tutti fa incantar…

Lui mette in fila i coniugi
sotto il bel ciel sereno:
“Le mani su stringetevi.”
comincia a comandar.
“Io mi proverò a suonar…
Voi provatevi a cantar…”

Cos’importa se siam ricchi o poveri?
Tutt’è magnifico, Papà Pacifico!
Pa ra pa pa pa tutt’è magnifico
Papà Pacifico,
magnifico Papà!

Dove, per inciso, i coniugi invitati a darsi la mano non potevano che essere membri di una coppia eterosessuale regolarmente consacrata in chiesa e forse per questo totalmente disinteressata alla ricchezza. Oggi non c’è un Papà Pacifico che mette in fila i coniugi ma le differenze sociali e censuarie sono accettate supinamente grazie anche al “flauto magico” suonato ossessivamente dai media. In “Angeli Negri”, del 1950, troviamo invece il sincero e accorato appello di un “negro” (si chiamarono così ancora per qualche tempo) ad un pittore di altari:

Pittore, ti voglio parlare
Mentre dipingi un altare
Io sono un povero negro
E d’una cosa ti prego

Pur se la Vergine è bianca
Fammi un angelo negro
Tutti i bimbi vanno in cielo
Anche se son solo negri

C’è in questi pochi versi un’ammissione di inferiorità che oggi suonerebbe razzista. Allora gli italiani non erano razzisti, forse perché non si sentivano aggrediti come negli ultimi decenni ma erano semplicemente convinti che i neri fossero una “razza inferiore”.

Negli anni Sessanta cominciò a vacillare nella coscienza popolare anche la coerenza religiosa: passavano inosservate le contraddizioni presenti nei testi di qualche canzone. In “O mio Signore”, portata al successo da Edoardo Vianello nel 1963, si incontrano le frasi “O mio Signore, in questo mondo io non ho avuto tanto …” e, più avanti, “Grazie (o mio Signore n.d.r.) di tutto quello che hai fatto per me (?)”. Il paradosso, come si vede, era già presente sessant’anni fa anche se oggi dilaga in una maniera inarrestabile. Serviamocene dunque per sollevare le nostre giornate o almeno qualche ora dalla cappa plumbea che sembra avvolgerci. Senza porre limiti alla nostra creatività. E dunque riscriviamo l’evangelico “Beati i poveri in spirito…” pronunciato da Gesù e diamone una versione prossima al “nonsense”: “Il Maestro si rivolse allora ai suoi discepoli dicendo che era ormai tempo di smetterla, dopo tanti anni, con le vacanze al mare. E fu il Discorso della Montagna”. E rivisitiamo, concludendo e senza malizia, anche “Le nozze di Cana”: Gesù partecipava ad un pranzo di nozze. Al termine qualcuno della servitù gli si avvicino e gli bisbigliò all’orecchio: “Maestro, vorremmo servire il caffè, ma ci siamo accorti che è finito lo zucchero”. E Gesù rispose: “Non angustiarti oltre, figliolo: io lo prendo amaro e possibilmente in calice.”

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