Alla fine l’ho letto.
L’edizione è quella del 1972.
Le pagine ingiallite e scollate raccontano una storia che è stata proposta a diverse generazioni di studenti: chissà se ne hanno fatto tesoro!
L’ho letto a distanza di quasi cinquant’anni da quando me lo suggeristi mentre frequentavo le scuole medie; e non si contano le tante altre volte in cui mi hai raccomandato di leggerlo quando ero al liceo e poi all’università.
Cosicché all’ennesimo invito, stanco come solo un adolescente riesce a essere di fronte a un buon consiglio dei genitori, ti mentii, stupidamente, dicendoti di averlo letto: perdonami per quest’unica bugia che ti ho raccontato.
Me ne pento anche perché, se ti avessi ascoltato allora, avrei avuto ulteriori strumenti per affinare la capacità di giudizio del giovane entusiasta che ero quarant’anni fa e forse avrei evitato di andare a sbattere contro tante convinzioni, rivelatesi poi effimere infatuazioni, che hanno caratterizzato la mia vita.
L’avevi adottato come libro di narrativa per i tuoi studenti delle medie, quando insegnavi ad Agerola e a Pimonte nei primi anni Settanta del secolo scorso: mai libro fu più indicato per molti di quei ragazzi che il mattino frequentavano la scuola e il pomeriggio aiutavano i genitori a badare agli animali nelle stalle, in quei paesi dei monti Lattari, divenuti famosi per la produzione di latticini di gran qualità.
Quel libro parlava anche di loro.
Ne avevi intuito, come mi hai raccontato quando ormai eri in pensione, la carica emotiva che sarebbe riuscito a trasmettere a quei ragazzi e non esitasti un attimo a proporlo alla loro attenzione.
Non dovettero acquistarlo: lo portavi tu e glielo facevi leggere e commentare in classe, senza assegnare compiti da svolgere a casa.
Volevi che prendessero coscienza dell’importanza della scuola e dell’istruzione, che per te era fatta anche della lettura del quotidiano in classe, come eri stata abituata dalla tua maestra alle elementari.
Lo spirito di quel libro era già parte di te prima ancora che tu lo leggessi, prima ancora che fosse scritto.
Forse perché, dopo la morte di tuo padre, quando avevi appena sedici anni, per mantenere tua madre casalinga e tua sorella più piccola, diventata poi anche lei insegnante, avevi cominciato a dare lezioni d’italiano, latino e greco ai rampolli delle famiglie benestanti di Napoli.
Grazie a te, quei ragazzi conseguivano la promozione con profitto, mentre i figli di chi non poteva permettersi ripetizioni private rischiavano di perdere l’anno: avevi toccato con mano quanto la scuola, incapace di recuperare chi restava indietro nell’apprendimento, potesse essere classista.
L’ho letto in una sera, tutto di un fiato ed è stato come ricevere un pugno nello stomaco.
L’ho contestualizzato, nei tempi e nei luoghi in cui era stato scritto, e nonostante ciò non ho potuto fare a meno di riconoscere che, a distanza di più di cinquant’anni, manteneva intatta la sua carica dirompente di denuncia sociale.
Riassumere gli spunti di riflessione, che suggerisce anche al più distratto fra i lettori, sarebbe riduttivo e finirebbe con lo sminuire l’impegno e l’obiettivo di chi quel libro lo scrisse.
Fra i tanti, mi è caro un principio, da prima ancora che lo ritrovassi in quelle pagine e cioè che “è solo la lingua che fa eguali”.
Era la fine dei “mitici” anni Sessanta quando Don Lorenzo Milani scrisse “Lettera a una professoressa”, ma le cose non sono cambiate poi molto, considerato che continua a esserci sempre qualcuno “più uguale” degli altri.
Ora che non ci sei più, spero solo che i tuoi ragazzi di Agerola e Pimonte ce l’abbiano fatta, tutti insieme, aiutandosi l’un l’altro come tu insegnasti loro, seguendo l’esortazione del Priore di Barbiana: “Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.