La storia, non quella dei grandi eventi ma quella che riporta circostanze e fatti curiosi, ci riserva spesso sorprese che hanno dell’incredibile. Una di queste coinvolse Richard Wagner, figura centrale nell’evoluzione della musica occidentale. Temperamento volitivo e focoso aveva partecipato da anarchico ai moti rivoluzionari del 1848 accanto a Bakunin, mentre i suoi primi successi gli avevano già dato una discreta fama.
Nel 1876 Wagner, ormai celebre in tutta Europa, aveva composto quasi tutti i suoi monumentali capolavori. La speranza di superare le sue non buone condizioni di salute lo spinse a trasferirsi temporaneamente a Napoli. L’Italia dell’Ottocento era la meta obbligata di quello che all’epoca si chiamava il “Grand Tour”, cioè un turismo di élite che coinvolgeva l’alta borghesia e i protagonisti della cultura e delle arti, attratti dal clima, dalle bellezze naturali e dal patrimonio artistico disseminato sull’intera Penisola e concentrato nelle principali città d’arte. L’impatto di Wagner col folclore napoletano non fu dei più felici, come era già capitato spesso a molti dei suoi predecessori provenienti dai paesi anglosassoni o dalla Francia. Ma, giorno dopo giorno, Wagner fu lentamente soggiogato dal calore umano e pittoresco dei napoletani: si racconta che girasse per la città in tram e che uno dei suoi più graditi passatempi fosse quello di recarsi presso i tribunali per assistere alle udienze, evidentemente ricche di coloriti spunti popolari oltre che di appassionanti vicende giudiziarie. Il coinvolgimento nella brulicante vita cittadina lo portò infine a dire: “Napoli è la mia città e qui tutto è vita”. Certamente ebbe numerose occasioni di frequentare locali pubblici, ristoranti e taverne dove si esibivano i cosiddetti “posteggiatori”.
In un prezioso volumetto tascabile pubblicato nel 1995 dalla Newton Compton all’interno di una collana dedicata alla nostra città, Mimmo Liguoro ci spiega cos’era “‘a pusteggia” nel periodo che ci interessa, dalla metà dell’Ottocento ai primi decenni del secolo scorso. La figura del posteggiatore risale ai menestrelli, ma si delinea in maniera distinta nel Seicento quando nella Napoli vicereale si diffondono le trattorie: secondo alcuni cronisti se ne contavano oltre un centinaio. La posteggia, che era stata per qualche secolo musica di strada, cominciò ad avvicinarsi a questi locali pubblici ed ai suoi frequentatori. Il repertorio che i posteggiatori proponevano era costituito per lo più da “villanelle”, canti poetici di grande bellezza, molti dei quali recuperati da Roberto De Simone, accompagnati da uno o più strumenti affidati allo stesso cantante solista o agli altri componenti di quello che più tardi diventerà “il concertino”.
Nella seconda metà dell’Ottocento la posteggia assume il suo carattere definitivo. Nella produzione musicale sono sopravvenute le “canzoni”, agli strumenti secenteschi (tiorbe, calascioni) sono subentrati il mandolino, la chitarra e il violino. Ma ciò che più di ogni altro aspetto decreta il successo della posteggia nella sua forma matura è la vocalità del posteggiatore. La pubblicazione sopra richiamata ce ne offre un’illuminante descrizione attribuita ad Alberto Consiglio: “La canzone è fatta di tre elementi: un mandolino, una chitarra, una voce… Non un tenore, un baritono. Una voce. Un uomo che possa cantare con la stessa naturalezza con la quale respira o parla. Una voce, magari, senza portata. Una voce, forse, rauca. Ma la voce di un uomo che “sente”. Una voce persuasa e persuasiva. Una chitarra e un mandolino che seguono e commentano, senza particolare bravura. Il posteggiatore viene vicino vicino e canta, un po’ curvo, quasi sottovoce…”.
L’incontro col più apprezzato posteggiatore dell’epoca avvenne nella residenza napoletana di Wagner, Villa Doria d’Angri a Posillipo. Si trattava di Giuseppe Di Francesco soprannominato ‘o Zingariello un po’ per l’aspetto minuto e per il nero dei suoi capelli, ma anche perché aveva viaggiato molto spostandosi ripetutamente all’estero. Il grande musicista tedesco, come si è detto, aveva certamente avuto modo di ascoltare altri posteggiatori ma “‘o Zingariello” lo conquistò, con la sua voce impreziosita da “‘o striscio”, una incrinatura che dava tristezza al canto e quindi commuoveva. Il suo modo di cantare era talmente affascinante che gli dedicarono una canzone sia Salvatore Di Giacomo, con “Ll’ortenzie”, che Libero Bovio autore di “Zingariello” (“Zingariello cantatore ‘e Pusilleco senza voce sapive cantà”). Wagner gli propose di seguirlo a Beyrauth, in Baviera, al termine del suo soggiorno partenopeo. La proposta fu accettata per ovvi motivi economici ma non sappiamo se ce ne fossero altri come, ad esempio, il desiderio di ritentare la fortuna all’estero.
Le numerose lacune circa il rapporto che si instaurò tra i due protagonisti di questo strano incontro sono dovute al fatto che le poche notizie documentate sono rintracciabili quasi esclusivamente nei diari e nella corrispondenza della moglie di Wagner, Cosima Liszt (figlia del celebre compositore ungherese), mai tradotti in italiano.
A Beyrauth ‘o Zingariello si trattenne per ben quattro anni durante i quali il suo anfitrione lo fece esibire nei migliori salotti bavaresi davanti al re Ludwig II di Baviera ed al resto dell’aristocrazia e borghesia tedesca. Di regola il nostro posteggiatore cominciava a cantare quando Wagner terminava di suonare il piano. Non è dato sapere come il Di Francesco abbia realmente trascorso questa lunga permanenza in un santuario della musica colta come dovevano essere non soltanto la residenza di Wagner ma anche il teatro d’opera costruito da Ludwig II di Baviera, dedicato esclusivamente alle rappresentazioni dei drammi musicali del compositore e tuttora sede dell’annuale Festival di Bayreuth. Sembra piuttosto difficile immaginare che il misticismo religioso di matrice scandinava, che pervade quasi tutte le opere di Wagner, abbia potuto affascinare il suadente e colorito cantatore napoletano, certamente più vicino all’opera buffa di Paisiello, Cimarosa e Rossini: chissà se abbia conosciuto e condiviso il sarcasmo col quale il musicista pesarese si pronunciò in più di un’occasione sulla musica del collega tedesco. Quando gli fu chiesto un giudizio sul “Lohengrin”, Rossini rispose di non poter giudicare un’opera al primo ascolto, ma di non aver intenzione di ascoltarla un’altra volta. Della musica di Wagner in generale diceva: “Regala bellissimi momenti, ma anche terribili quarti d’ora.”
La convivenza tra due personalità pur così diverse sarebbe forse durata più a lungo se l’irrequieto Di Francesco non avesse più volte tradito la fiducia del suo mecenate. Tutte le cronache convengono sulla circostanza che ‘o Zingariello abbia approfittato delle cameriere che prestavano servizio nella villa che lo ospitava. Secondo alcuni cronisti ne mise incinte ben quattro, quantitativo ritenuto eccessivo da altri, che però non escludono un numero di relazioni anche maggiore. Che fossero una, due o quattro, Wagner mostrò una viva insofferenza alla vivacità del suo ospite benché di lui avesse scritto: “Quelle note e quella voce erano la voce e l’anima di ciò che gli uomini nella luce e nell’universo non vedono, ma sentono, ed a cui aspirano”. Sembrerebbe comunque che sia stato il Di Francesco a lasciare il suo protettore, senza nemmeno salutarlo.
Al suo rientro a Napoli Peppino ‘o Zingariello minimizzò i motivi del ritorno dicendo: “M’ero sfasteriato ‘e fa’ ‘o soprammobile”. Solo in seguito confesserà la verità. Richard Wagner si spegnerà per un attacco cardiaco qualche anno dopo, nel 1883, a Venezia dopo aver portato a termine, a Napoli nella Villa Doria d’Angri, la partitura del “Parsifal”. Peppino Di Francesco se ne andò invece in Russia dove si trattenne per oltre quindici anni rientrando a Napoli nel 1917, giusto un po’ prima della rivoluzione di ottobre, senza un soldo ma con la sua inseparabile chitarra. Qui nel corso degli anni Venti sarà ospite fisso in uno dei più noti ristoranti di Posillipo. “Lo Scoglio di Frisio”, dove intratterrà i commensali interpretando il suo vastissimo repertorio con la sua voce particolare L’età non lo spaventa. Ormai ottantenne, non abbandona la fidata chitarra e la sua voce risuona nei ristoranti e nelle vie di Posillipo fino a pochi giorni prima di morire, il 19 dicembre del 1935. L’Italia fascista, disattenta e superficiale, non si accorge neppure della scomparsa di “Peppino o’ Zingariello”.
Vero, non conoscevo la vicenda. Molto interessante. Sono portato a condividere il pensiero di Rossini sulla musica di Wagner.