Autonomia o disgregazione?

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L’Italia dopo il Congresso di Vienna (Fonte: Wikipedia)

C’era una volta un’Italia divisa in stati e staterelli, come mostra la cartina allegata; siamo sicuri che una situazione simile non si realizzerà nuovamente? Il dubbio nasce dalla constatazione che il 2 febbraio scorso il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per gli affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli, ha approvato un disegno di legge (ddl) contenente disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario. Presentando il predetto provvedimento, la Presidente Meloni ha dichiarato: «Con il disegno di legge quadro sull’autonomia puntiamo a costruire un’Italia più unita, più forte e più coesa. Il Governo avvia un percorso per superare i divari che oggi esistono tra i territori e garantire a tutti i cittadini, e in ogni parte d’Italia, gli stessi diritti e lo stesso livello di servizi.» Ma è proprio così? Immediate critiche a quest’iniziativa di governo sono piovute sia sul piano politico sia su quello tecnico-giuridico.

Dal punto di vista politico, i partiti di opposizione al Governo Meloni hanno evidenziato che il ddl “spacca l’Italia in due” (Angelo Bonelli, deputato dell’Alleanza Verdi-Sinistra italiana); secondo Mara Carfagna, presidente di Azione, l’approvazione del ddl sull’autonomia differenziata rappresenta un grave “cedimento alla propaganda della Lega, che voleva esibire a tutti i costi la riforma come trofeo prima delle elezioni regionali” in Lombardia e Lazio; il ddl “fa a pezzi l’Italia” per Stefano Bonaccini, Presidente della Regione Emilia Romagna, mentre è “inaccettabile, spacca l’Italia” per Vincenzo De Luca, Presidente della Regione Campania; per Michele Emiliano, Presidente della Regione Puglia, il ddl è un testo “inaccettabile”, una “dichiarazione di guerra al Mezzogiorno”, una “scenetta comica per aiutare la Lega”; il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, ha evidenziato che “il ddl divide il Paese: troppe frammentazioni di competenze e troppi divari”. Sul piano sindacale, il ddl “va contro il Paese” per Maurizio Landini, segretario generale della CGIL.

Dal punto di vista giuridico, Luca Zaia, Presidente della Regione Veneto, ha osservato che con il ddl “diamo corso alla volontà dei Padri Costituenti e ai dettami della modifica del Titolo quinto della Costituzione”. Ma è proprio questo il punto criticato da alcuni giuristi ed addetti ai lavori. Innanzitutto, da più parti si è fatta rilevare la farraginosità dell’iter attuativo del ddl, che contrasta con l’ottimistico annuncio del Ministro Calderoli di vedere attuata la riforma in breve tempo; per giunta, il percorso tortuoso di questa riforma ha indotto il costituzionalista Gaetano Azzariti a dichiarare a la Repubblica: «Se si guarda nel suo complesso l’operazione sull’autonomia differenziata, dobbiamo convincerci che Calderoli, a nome dell’intero Governo, sta cercando di ridisegnare lo stato sociale senza che il Parlamento possa proferire parola.» Infatti, come ha evidenziato un altro costituzionalista, Michele Ainis, sul medesimo quotidiano, alle Camere viene lasciata una mera funzione consultiva, peraltro non vincolante, su ciascuna intesa raggiunta tra Governo e Regioni: “le Camere non possono correggere l’intesa, non hanno il potere di proporre emendamenti, devono votare e basta, a mani giunte e bocca chiusa.” L’equivoco di fondo su cui si basa il ddl in argomento viene così esplicitato dal prof. Ainis: “l’autonomia differenziata prevista dall’articolo 116 della Costituzione – che è norma eccezionale, concettualmente ristretta a pochi casi, a poche discipline – viene interpretata come regola, sovvertendo il rapporto fra Stato e Regioni”. Non a caso tutto il percorso disegnato dal ddl è concentrato sulla concertazione tra governo centrale e poteri locali. Anche Adriano Giannola, presidente della SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno), ha osservato che il ddl è “un testo affrettato, che esclude il Parlamento per le procedure con cui si arriva all’approvazione delle intese tra lo Stato e le Regioni”.

Per non parlare poi del fatto che – come rileva il prof Azzariti – «i diritti costano e la pretesa … di trasferire alle Regioni materie sui diritti fondamentali a bilancio invariato, tradisce, come diceva Carlo Marx, la “falsa coscienza” delle classi dirigenti.» Infatti “determinare” sulla carta i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) non significa finanziarli.

Si ha l’impressione che questa riforma sull’autonomia, trasformando le 21 regioni italiane in altrettante istituzioni “a statuto speciale”, non potrà far altro che aumentare le differenze nel Paese su questioni fondamentali come la scuola, la salute, il lavoro. Quindi, è concreto il rischio di trasformare il Bel Paese suddividendolo nuovamente in tanti piccoli staterelli.

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