Qualche anno fa questo giornale ospitò alcune mie riflessioni sull’importanza degli ebrei nella letteratura, nella filosofia e nella cultura occidentale a partire dal secolo scorso e tuttora viva. Si citavano le figure preminenti di Marx, Freud ed Einstein e ci si chiedeva, in conclusione, se dovesse destare meraviglia la particolare e tanto malvista attitudine ad accumulare denaro. Veniva invece rinviata la specifica trattazione della presenza dei discendenti di David nel cinema, nella musica e nell’umorismo americani nello stesso periodo. Tema che si affronta qui di seguito.
Quando si parla di cultura americana non ci si riferisce ovviamente a quella, discutibile nella sua grettezza, dei paesi “di frontiera” che occupano la gran parte del territorio confederale ma a quelle della East Coast, con epicentro New York, e della West Coast, dominata da Hollywood. Entrambi questi territori furono meta di ebrei ungheresi, polacchi e russi che fuggivano dall’antisemitismo circolante in Europa già prima dei due conflitti mondiali.
Ed in realtà conviene partire proprio dalla capitale dell’industria cinematografica americana perché lì si sono concentrate, attraverso il cinema, sia la musica che l’umorismo di radici ebraiche. La nascita di quasi tutti i colossi dell’incipiente industria inaugurata in Francia dai fratelli Lumiere risale alle fortunate iniziative e talvolta ai capitali di immigrati ebrei: la Metro-Goldwyn-Mayer, la 20th Century Fox, la Paramount, la Universal, la Columbia, la RKO furono fondate da ebrei. Finanche la più modesta United Artists ebbe tra i suoi cofondatori Charles Chaplin e Douglas Fairbanks, entrambi di origini ebraiche.
Negli anni del “muto” l’apporto della musica e dell’umorismo ebraico, fondato essenzialmente su espressioni verbali, furono ovviamente assenti dalla scena e tuttavia già allora la presenza di attori e registi ebrei era significativa, basti pensare a Charles Chaplin e, negli anni ‘30, a registi come Fritz Lang, di madre ebrea, Ernst Lubitsch, seguiti poi da Joseph L. Mankiewicz, George Cukor e Billy Wilder. Con l’avvento del “sonoro” nel cinema hollywoodiano fa il suo ingresso trionfale la musica. Il dominio degli ebrei immigrati in questo campo è impressionante. Lo erano gli autori delle colonne sonore dei film più famosi, tra i quali ricordiamo innanzitutto Max Steiner per “Via col vento”, “Un posto al sole”, Erich Korngold, raffinatissimo autore anche di validissima musica “colta”, Alfred Newmann e Dimitri Tiomkin, che negli anni ’50 accompagnò con la sua musica tanti film di successo (“Alamo”, “I cannoni di Navarone”). Ma a questi autori “classici” altri se ne sono poi aggiunti e ci hanno lasciato le bellissime colonne sonore di film fiabeschi, anche recenti, come “Mary Poppins”, “Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato”, “Nightmare before Christmas”, solo per citare i più famosi.
Il contributo più ricco, più costante (e più ebreo) al cinema hollywoodiano è legato al “musical”. Nato sulle scene di Broadway negli anni ‘20 e poi, titolo dopo titolo, trasferito pari pari sul grande schermo può vantare un pedigree giudaico incredibile che fonda le sue radici nel valzer viennese e francese. Possiamo partire da Johannes Strauss senior incrociando poi Offenbach, ebreo francese, e proseguendo con i discendenti degli Strauss, il grandissimo Johannes junior, Joseph e Eduard cui fanno seguito Emile Waldteufel, Sigmund Romberg e Emmerich Kalman. Benché ebreo, Kalman piaceva molto a Hitler il quale dopo l’annessione dell’Austria gli offrì il titolo di “ariano onorario” ricevendone un netto rifiuto. Kalman espatriò nel 1940 a Parigi trasferendosi poi definitivamente in California. Ma nel frattempo si erano già da tempo stabiliti in territorio americano altri valenti compositori, cresciuti nel mondo austro-ungarico dell’operetta, dai quali sgorgò il filone del “musical”. La sequenza di questi compositori, protrattasi fino agli anni ’60, ha dell’incredibile: Irving Berlin, Jerome Kern, George Gershwin, Richard Rodgers, Frederick Loewe, Frank Loesser, Leonard Bernstein, Burt Bacharach. Di tutti i grandi autori di “musical” il solo Cole Porter non poteva “vantare” origini ebraiche, così come Franz Lehar (“La vedova allegra”) nel mondo dell’operetta. Una menzione particolare spetta al protagonista assoluto del cinema musicale americano, Fred Astaire (al secolo Frederick Austerlitz) che non era un compositore ma recitava, cantava e soprattutto ballava con un’eleganza, una scioltezza ed una perfezione ineguagliate.
Con l’introduzione del “parlato” nel cinema americano, che già aveva conquistato il mondo con la geniale comicità di Chaplin e Buster Keaton, l’umorismo ebraico fece il suo ingresso trionfale facendo conoscere alla platea internazionale gli irresistibili “nonsense” dei fratelli Marx (cognomen omen, vedi Karl) ai quali fece seguito nei decenni a venire una sfilza incredibile di fuoriclasse del grande schermo, alcuni dei quali capaci non solo di far ridere ma anche di cantare e ballare. Di origini ebraiche erano infatti Danny Kaye, Jerry Lewis, il regista Mel Brooks (“Frankenstein Jr.”) il grande Woody Allen, gli attori Gene Wilder e Marty Feldman. La fortunata serie di film umoristici iniziata con “L’aereo più pazzo del mondo” e proseguita poi con “Una pallottola spuntata” ed altre esilaranti pellicole degli anni ‘80 è dovuta al trio costituito da Jim Abrahams e dai fratelli Zucker. Di genitori ebrei erano anche i registi John Landis (“Animal House”, “The Blues Brothers”) e i fratelli Cohen, prodighi nei loro film di memorabili spunti ironici così come alcuni di quelli diretti da Steven Spielberg.
Non è facile scoprire come si sia potuta verificare questa oggettiva concentrazione di talenti di origine ebraica in settori tutto sommato specifici, anche se contigui, come il cinema, la musica e l’umorismo. Forse ha funzionato la solidarietà, la compattezza etnica degli ebrei che, partendo dai produttori, ha poi coinvolto attori, compositori e sceneggiatori (tra i quali spiccano gli ebrei Neil Simon e Peter Bogdanovich). L’ipotesi della cooptazione è possibile ma certamente non scalfisce per nulla l’eccellenza di ciascuno dei prescelti. D’altra parte la scena cinematografica ha continuato ad ospitare artisti di origini ebree amati da tutti, come Yul Brinner, Paul Newman, Dustin Hoffman, Peter Sellers, Walter Matthau, Scarlett Johansson, Natalie Portman e tanti altri. Ma ogni dubbio sull’ipotesi del familismo esteso a tutta l’etnia e alla religione ebraica è però fugato da Moni Ovadia: nella sua presentazione al libro “E Dio rise” di Marc-Alain Ouaknin, edito da Libreria Primogiorno nel 2022, chiarisce che la popolazione ebraica statunitense non ha mai superato il 3% mentre i comici professionisti sono ebrei all’80%, confermando poi che “questa ricchezza di talenti vale anche per la scena del song americano”.
E proprio in merito alla particolare vena musicale, non essendo agevole per chi non possiede adeguati mezzi di indagine risalire alle origini più remote, è invece intuitivo ricondurne la matrice più recente ai territori balcanici, austro-ungarici e boemi che furono meta delle diaspore. Ciò tuttavia non spiega la grande inventiva melodica e armonica dei vari autori, né la loro originalità, pur contenuta nell’alveo di un filone comune, né la loro apertura alle più diverse contaminazioni, come ad esempio quella della musica jazz.
Anche sul fronte dell’umorismo ci soccorre Moni Ovadia. Dalla presentazione del libro appena citato riportiamo: «La vicenda della comicità ebraico-statunitense è un episodio dell’avventura sociale e culturale di particolare fascino ed interesse perché mostra come i tratti specifici di una minoranza e, nella fattispecie, una minoranza gravata da violenti pregiudizi secolari, perseguitata e percepita nel segno di una radicale devianza dalla norma, possa tuttavia influire in modo decisivo sulla nazione che la accoglie, sui suoi cittadini, al punto da diventare senso comune, da incidere sulle forme del pensiero, sulle percezioni e sulla stessa visione del mondo. Quando poi quella nazione, gli Stati Uniti d’America, è la più potente del mondo, quella che dà la “linea” a vaste aree del pianeta, l’influenza varca i confini per irradiare in altri orizzonti, in particolare quello europeo».
I tratti distintivi dell’umorismo ebraico ce li descrive invece proprio l’autore nella sua introduzione a quella che è, in definitiva, una raccolta di brevi storielle e di battute di spirito. Secondo lui l’umorismo ebraico nasce dalla stessa Bibbia, quando viene annunciata ad Abramo, ormai centenario, che avrà un figlio da sua moglie, la sterile Sara, ormai novantenne. Abramo reagisce scoppiando a ridere e chiedendosi come ciò sia possibile. Gli risponde Dio dicendogli: “Sara ti darà un figlio e tu lo chiamerai Isacco, colui che rise (Genesi 17, 17)” L’autore ci spiega poi il meccanismo logico della battuta o della storiella umoristica: “L’illogica nascita di Isacco, la nascita del riso, fa scoppiare qualsiasi pensiero che si illuda di contenere in sé logica definitiva e verità. … Non c’è nulla di più serio dell’umorismo! È chiaramente un paradosso, ma la virtù del paradosso non sta proprio nella sua capacità di sovvertire le strutture logiche tradizionali per suggerire schemi nuovi e diversi? La logica tradizionale è lineare e causale: a causa corrisponde effetto e a effetto corrisponde causa: E se invece provassimo a spezzarla per cercare di percepire il mondo fuori di essa? L’umorismo lavora sul senso del senso, cioè sul nonsenso. Al contrario dell’interpretazione che va dal nonsenso al senso esso va dal senso al nonsenso. È demolizione, esplosione e messa in discussione del senso. L’umorismo lavora incessantemente sul proprio limite e giunge ad abolire proprio ciò che lo rende possibile: il senso.” E a proposito dei giochi di parole aggiunge: “La tecnica del doppio senso e l’omonimia producono spesso dei malintesi che ci aprono le orecchie. Prendiamo per esempio la storia del cieco e del paralitico citata da Freud ne Il motto di Spirito: “Come va?” dice il cieco al paralitico. “Come vede!” risponde il paralitico al cieco. Lo svolgimento della storiella fa sì che le parole vengano comprese nel loro significato originario. Il motto di spirito, conclude Freud, crea le condizioni nelle quali le parole, il cui senso primitivo era sbiadito, recuperino il loro senso pieno.”
E con questo possiamo ritenere completato il quadro della sorprendente presenza ebraica nella cultura occidentale, segnalando, per completezza di informazione, che anche Moni Ovadia è ebreo mentre Marc-Alain Ouaknin, l’autore del testo citato, è un rabbino.
Non sarà per caso un mix di cultura e intelligenza?