Benché aggredito da tutte le parti e in varie maniere, il fascino del Natale resiste egregiamente. Le feste che punteggiano il corso dell’anno si moltiplicano a dismisura, sostenute e incoraggiate dal consumismo più sfrenato. L’ultima arrivata, Halloween, fa registrare un successo crescente ed è ormai entrata nel circuito degli sprechi non solo di zucche da svuotare, come al primo ingresso, ma anche di costumi, di feste, di cene e di dolciumi, il tutto all’insegna del “dolcetto o scherzetto” e delle zucche, naturalmente. Insomma Halloween ormai non sfigura rispetto alla Festa della Donna, a San Valentino, alla Festa del papà, dedicata in passato al solo San Giuseppe, e allo stesso Carnevale. Capodanno resiste invece e resisterà sempre perché è l’unica festa planetaria. Pasqua rimane appena un gradino più in basso del Natale, sempre che il processo di secolarizzazione prima o poi non la faccia raggiungere dal gruppo delle nuove entrate.
Ma la giostra delle feste non ha ancora smesso di girare: già da qualche anno vi ha fatto il suo ingresso quella dei nonni, che sono tanti e aumentano mentre i nipoti sono in calo e dunque non ha un grande futuro. Nessuna speranza quindi neppure per una festa degli zii che avrebbe potuto completare l’arco delle feste familiari. Con i tempi che corrono sopravverranno più probabilmente feste di natura ambientalista, tipo festa degli alberi o dell’energia rinnovabile o, chissà, un giorno non lontano, quella della fusione nucleare.
Noi napoletani amiamo le feste, come tutti sanno. E chissà da quanto tempo, se si pensa che Ferdinando di Borbone le considerava essenziali per governare i suoi sudditi, insieme alla farina e alla forca: si servì infatti secondo necessità di tutte e tre queste famose “effe”. Eravamo quindi riconosciuti in tutto il mondo come festaioli impenitenti. Una vecchia canzone degli anni ’50, “Acquerello napoletano”, ci vedeva in festa ininterrottamente. Diceva: “Settimana di sette feste, questa è Napoli punto e basta…..” lasciando forse intravedere maliziosamente dietro al valore positivo dell’allegria quello negativo della poca voglia di lavorare. Ma in realtà Napoli celebrava qualche festa in più di quelle che rallegravano le altre città d’Italia. La festa del santo patrono era più importante di quanto non lo fosse altrove perché il nostro santo protettore era San Gennaro, artefice capriccioso e imprevedibile di un miracolo invocato ogni anno da fedeli imploranti. C’era anche la festa di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali, al quale ogni quartiere o rione della città dedicava un “cippo ‘e Sant’Antuono” cioè un rogo prodotto dall’incendio di una catasta di vecchi mobili, legni e legnetti vari. Ma si imponeva tra tutte la festa di Piedigrotta per le particolarità che la rendevano più coinvolgente di molte altre. La sua origine pagana, risalente al primo secolo a.C. e dedicata a Priapo, scorreva sotto traccia anche nella nuova versione cristiana incentrata sul Santuario di S. Maria di Piedigrotta. Era l’unica festa popolare in cui era ammesso infastidire per strada persone estranee e corteggiare in maniera più diretta donne e ragazze. A questo scopo ci si attrezzava con uno “scupettino” (asticella di legno o di canna con in cima un mucchio di striscioline di carta colorata, molto somigliante nel complesso ad uno spolverino). E c’era poi il “cuppulone”, un leggero recipiente simile ad un paralume o forse al casco da parrucchiere, fatto con cartone e carta colorata sospeso ad una canna con un filo. Di dimensione più o meno grande veniva calato a sorpresa sulla testa di un passante o di una passante, non sempre scelta a caso. Ce n’erano alcuni così grandi da poter coprire fin quasi al suolo anche un gruppetto di tre persone. Piedigrotta era insomma l’unica festa attraversata da un blando spirito trasgressivo, forse più del Carnevale. C’erano anche i carri allegorici che percorrevano via Caracciolo e Via Chiaia ai quali si aggiunse poi nel tempo, a partire dal 1835, una prestigiosa manifestazione canora culminata poi nel Festival della Canzone Napoletana. Il tutto durò fino al 1967.
Ma il Natale dei napoletani non aveva e non ha tuttora concorrenti. La magia del nostro Natale risiede nella coesistenza del senso religioso col gusto dell’abbuffata: mentre nella Piedigrotta il sacro si confondeva con residui della lussuria pagana, nel Natale il sacro convive col profano legato ai peccati di gola e all’ingordigia. All’origine dell’opulenza gastronomica che caratterizza il Natale c’è probabilmente la quarta “effe”, quella della fame endemica dei napoletani e di tutti gli abitanti non aristocratici delle grandi città del passato. Da noi questo connubio tra il sacro e il profano trova la sua massima espressione nel presepe settecentesco, il cui cliché, come nel celeberrimo Cuciniello, vede, accanto alla Sacra Famiglia riparata nell’antico tempio pagano diroccato o nella classica grotta, una marea di popolo occupato nelle più diverse attività riconducibili all’alimentazione: pastori che allevano pecore, popolane che curano pollai, macellai, ristoratori, “casadduogli”, venditori di caldarroste, acquaiole, pescivendoli, ostricari, méscite di vino e trasportatori di botti, come Ciccibacco (“Ciccibacco ‘ncopp’avotte, chi ‘o tira e chi ‘o votta”).
Certo le cose sono cambiate, e non poco. L’ingresso sulla scena nei primi anni ’50 del nordico albero di Natale fu certamente un fatto elitario e non popolare, pur essendo i primi addobbi relativamente modesti: vere candeline accese infilate in minuscole bugie munite di pinzetta e un po’ di cioccolatini avvolti in carta argentata colorata, sagomati a forma di pupazzetti o di altre cose bene accette ai bambini. La successiva, rapidissima diffusione ha però contribuito in maniera sensibile ad incrementare il lato consumistico ed esibizionistico della festa. Per molti l’abete natalizio è diventato l’occasione per informare parenti e amici di essere perfettamente aggiornati sulle ultime tendenze in materia di addobbi natalizi. C’è chi lo rinnova ogni anno seguendo la moda: un anno palle dorate, l’anno dopo palle di colore rosso lucido e poi, l’anno successivo, albero tutto bianco come fosse innevato. Per costoro l’albero di Natale diventa testimone del tempo presente e non più della storia personale e familiare di chi, anno dopo anno, tira fuori gli stessi addobbi, gli stessi fili dorati, le stesse serie di pisellini luminosi, se ancora funzionanti, con rare aggiunte per lo più necessarie a sostituire i pezzi andati in frantumi.
La passeggiata per San Gregorio Armeno non è più un appuntamento festoso nel cuore antico di Napoli ma un evento turistico un po’ soffocante. Anche i pastori non sono più gli stessi. Quando i napoletani vivevano in maggioranza nei pressi di quella che oggi chiamiamo aridamente la soglia di povertà, si vendevano pastori di basso prezzo, goffi, sommari, con i tratti del viso molto approssimativi e talvolta decisamente mostruosi: il modesto padre di famiglia concentrava la spesa sulla Sacra Famiglia alla ricerca di una Madonna e di un San Giuseppe dal volto umano. E questi pastori duravano anni, se non decenni.
Il tempo ha dunque snaturato non poco la festa del Natale ma tuttavia puoi ancora tentare di ricostruirne l’incanto nella tua cerchia familiare. E quindi abbandonerai salmone affumicato, cocktail di gamberi e capesante per tornare gloriosamente ai vermicelli a vongole, al capitone (se piace), all’insalata di rinforzo, al baccalà, alle frittelle di cavolfiore, alle ciuciunarie, ai fichi secchi, ai roccocò, ai mustacciuoli, agli struffoli e, perché no, anche al panettone, simbolo nazionale del Natale, ed infine al tuo albero di Natale rigorosamente “storico” ed al presepe, davanti al quale commuoverti a mezzanotte celebrando un rito religioso nel quale magari da anni non ti riconosci più.