La tela più grande al mondo

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Maddaloni, Convitto Giordano Bruno, Salone (Foto di A. Ferrara)

Proseguendo nella mia azione di scoperta e valorizzazione del turismo “minore”, che poi tale non è se non per il fatto di essere poco o niente pubblicizzato, mi sono recato a Maddaloni, cittadina alle porte di Caserta. Denominata “città delle quaranta chiese” (ma in realtà sono in numero ancor maggiore) ha visto passare tanti personaggi illustri, primo dei quali san Francesco che, nel 1220, diretto ad Assisi provenendo dalla Terra Santa, qui volle fermarsi e costruire, su un suolo donatogli dai notabili del posto, una piccola chiesa ed un cenobio. Queste strutture non sarebbero sfuggite, a seguito di distruzioni e ricostruzioni come sempre avviene nella storia, a modifiche strutturali e decorative, particolarmente nel XVI e XVIII secolo. Oggi quello che fu un convento di francescani, annesso alla chiesa di San Francesco d’Assisi (che però qui chiamano di Sant’Antonio) è il “Convitto nazionale statale Giordano Bruno”, la più antica scuola pubblica in provincia di Caserta, essendo nato durante il decennio francese, con decreti di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat, come Real Collegio, poi dopo l’unità d’Italia denominato convitto nazionale ed intitolato al filosofo nolano.

Accolto dal giovane e dinamico rettore, prof. Rocco Gervasio, e dal professor Antonio Pagliaro, grande conoscitore ed autore di numerosi testi sulla storia dell’arte locale, che è stato il mio Virgilio, ho avuto modo di addentrarmi in ogni angolo di questa meraviglia dell’arte e della cultura italiana. L’istituzione scolastica è articolata secondo un intero percorso formativo a partire dalla scuola primaria fino ai due indirizzi liceali, ed ospita attualmente circa 450 alunni in regime di semiconvitto. Qui hanno studiato o insegnato illustri pensatori e filosofi, come Luigi Settembrini e Francesco Fiorentino, ricordati da due lapidi all’ingresso, ma tanti sono stati i personaggi della storia, della politica e della cultura che in qualche maniera hanno interagito o lasciato una propria testimonianza, anche del solo passaggio, basti citare Sant’Alfonso de’ Liguori, lo storico Giacinto De Sivo, Nicola Amore (Sindaco di Napoli all’epoca del Risanamento), sindaci di Napoli come Winspeare e Angiulli, Giovanni Leone (presidente della Camera e poi della Repubblica), deputati, magistrati e funzionari dello Stato, oltre allo stesso Murat e lo zar Nicola I.

Maddaloni, Convitto G. Bruno, Chiostro (Foto di A. Ferrara)

La visita non può che iniziare dal grande chiostro monumentale, delimitato da arcate e pilastri, al centro del quale campeggia un pozzo settecentesco, ed a fianco un albero di limoni che ci ricorda il luogo dove originariamente San Francesco piantò un cedrangolo (sorta di arancio amaro) le cui virtù quasi taumaturgiche sono testimoniate da un’apposita lapide. Della decorazione cinquecentesca sappiamo che i francescani commissionarono al pittore napoletano Andreas De Antonio una serie di trenta lunette che avrebbero dovuto illustrare storie e miracoli del Santo; purtroppo oggi ne vediamo solo una, forse la prima, molto coinvolgente e realistica, che descrive il momento in cui il Santo si spoglia dei suoi averi davanti al Vescovo di Assisi e resta completamente nudo, osservato dai genitori piangenti nel vedere il figlio rinunciare alle gioie terrene.

I sotterranei del convento furono utilizzati, dai frati, come cantine per il vino che gli stessi producevano con le uve dei loro vigneti non lontano da qui, poi come depositi di acqua che arrivava direttamente dal Serino e quindi, come è facile immaginare, adibiti a rifugi antiaerei durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale.

Busto di Giordano Bruno (Foto di A. Ferrara)

In prossimità dell’accesso fa bella mostra di sé il busto di Giordano Bruno, in realtà molto espressivo e ben eseguito, anche se di un autore non proprio famosissimo, Severino Castorani. Nel 1883, di seguito all’intitolazione a Giordano Bruno, si convenne di erigere un busto che riproducesse le fattezze del filosofo, per cui fu chiesto al Ministero, ed autorizzato, un sussidio di 1500 lire. Autore del progetto, e poi realizzatore dello stesso, fu un docente del Convitto, appunto il Castorani, il quale portò a termine l’opera nel 1889. Il lavoro, così ultimato, piacque al Consiglio amministrativo oltre ogni più rosea aspettativa, al punto che, ritenendo la precedente somma impegnata appena sufficiente a coprire le spese per materiali e strumenti, fu proposta una “straordinaria rimunerazione di lire 500” all’artista, il quale, peraltro, non aspirava ad alcun tangibile compenso, ritenendosi già appagato dalla soddisfazione di aver reso un servigio all’istituzione.

Refettorio (Foto di A. Ferrara)

Il monumentale refettorio è un lunghissimo salone che ha mantenuto la sua destinazione d’uso nel corso dei secoli, allora i frati, oggi gli studenti, anche se per un periodo, sempre durante la seconda guerra mondiale, fu in parte riconvertito in ospedale militare, grazie ad un muro di separazione appositamente eretto; alla fine del conflitto la parte più piccola, quella che aveva ospitato i soldati feriti, venne trasformata in palestra coperta, ma poi, visto l’incremento di iscrizioni di semiconvittori, si decise di abbattere la parete divisoria e ripristinare tutto come era e come oggi lo possiamo apprezzare.

Affreschi dell’ingresso (Foto di A. Ferrara)

L’ingresso del palazzo è un imponente scalone in lava vesuviana, dove possiamo ammirare tre nicchie affiancate in cui sono stati realizzati, dai fratelli Giuseppe e Giovanni Funaro, gli affreschi laterali con San Gioacchino e Sant’Anna (alquanto deteriorati) e quello centrale con il riposo durante la fuga in Egitto (restaurato nel 2010). Lo scalone immette lateralmente nel cosiddetto saloncino, che fa da galleria delle memorie storiche dell’istituzione, infatti troviamo esposte foto e ricordi di alunni, istitutori e militari oltre a vari cimeli, testimonianza di due secoli di storia. Il soffitto è una grandissima tela, opera anch’essa dei Funaro, restaurata di recente grazie ad un cospicuo finanziamento elargito dall’attore Tom Cruise; la tela, con i suoi motivi architettonici ad effetto “inganna l’occhio”, ci fa pregustare quella che stiamo per vedere e che costituisce il motivo della mia venuta in questo posto eccezionale. Sempre accompagnato dal prof. Pagliaro entriamo dunque nel salone monumentale, lungo 64 metri, sul quale si aprono quelle che furono le celle dei frati, oggi trasformate in aule o uffici. Devo dire che l’effetto sorpresa è notevole e poco manca che non venga colto dalla sindrome di Stendhal! Le decorazioni settecentesche su porte e finestre sono pregevolissime, si vedono fiori, rami, putti, finanche due finti orologi, oltre ad affreschi raffiguranti francescani, papi e santi; anche il pavimento di recente restaurato, è perfetto, ma ciò che vedo alzando la testa mi lascia letteralmente senza fiato.

Tela del salone (Foto di A. Ferrara)

L’intero soffitto è completamente ricoperto da una tela che si estende, anche lateralmente per 820 metri quadrati, davvero forse, come si dice, la più grande al mondo, che i frati commissionarono all’artista casertano Giovanni Funaro il quale, considerata la complessità dell’impegno, si avvalse della collaborazione di diversi aiutanti “di bottega” oltreché del fratello Giuseppe, specializzato in ornamenti figurativi, e dell’architetto Casimiro Ventromile che realizzò la cornice in legno alla base dell’opera e che probabilmente, ma è una mia ipotesi forse azzardata, dovette fare anche un po’ da consulente tecnico nella realizzazione dei giochi prospettici che danno slancio alle diverse sezioni dell’opera, creando l’effetto di apertura verso l’alto, quasi uno sfondamento dello spazio, grazie ad un’abbondanza di archi, colonne e balaustre dipinti con sopraffina maestria, appunto un “trompe l’oeil” di stampo quadraturista.

La tela, come è ovvio, è il risultato dell’assemblaggio di più tele, sapientemente affiancate, incollate ed inchiodate su telaio, ma poiché la osserviamo ad un’altezza di circa 11 metri difficilmente riusciamo a scorgerne le cuciture; avrebbe forse bisogno di un restauro, ma anche così come si trova è perfettamente leggibile. L’opera, articolata in settori ben delimitati dalle architetture di cui si diceva, è sostanzialmente rappresentativa, in maniera allegorica, del trionfo della fede sull’eresia e quindi dell’accettazione incondizionata dei dogmi della Chiesa.

Tela, particolare dell’Immacolata Concezione (Foto di A. Ferrara)

Nella parte centrale vediamo il tema principale, ossia l’Immacolata Concezione venerata dalla Trinità che riceve dallo Spirito Santo, in forma di colomba, i raggi della luce celeste, origine del concepimento. Un particolare curioso è l’immagine di un teologo scozzese del XIII secolo che teorizzò sulle tesi della verginità della Madonna; dalla sua bocca, infatti, escono come un fumetto le parole di una preghiera; ma tanti sono i particolari ed i riferimenti allegorici ricchi di significati, per cui dovrei dilungarmi oltre misura; preferisco invece fermarmi qui perché comunque mai con le parole riuscirei a descrivere le emozioni e l’estasi che pervadono un animo sensibile davanti a un siffatto capolavoro. Sperando di aver stimolato tanta curiosità, vorrei invitare a recarsi presso questo luogo, per godere di persona di un tassello fondamentale, ancorché poco conosciuto, dell’arte italiana. Chiunque sarà ricevuto con entusiasmo e guidato dal rettore Gervasio e dal prof. Pagliaro, i quali stanno già svolgendo una meritoria opera di divulgazione, attraverso seminari, conferenze, visite guidate ed anche di intesa col FAI, al fine di rendere quanto più fruibile a tutti la bellezza di un tesoro del quale sono validi custodi. Arrivarci è facilissimo, anche in treno. Saranno ben lieti di avervi come ospiti e… vi offriranno anche un bel caffè!

2 commenti su “La tela più grande al mondo”

    1. Loretta russo

      L’autore ha saputo suscitare la mia curiosita’.
      il turismo “minore”ha inoltre il pregio di farti godere delle bellezze artistiche senza lo stress da file e folle..

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