La delusione per il risultato sconfortante del PD alle recenti elezioni politiche sembra aver spinto anche alcuni dei suoi elettori storici più prestigiosi a cimentarsi in analisi impietose sulle ragioni del suo insuccesso. E così per la prima e, spero, ultima volta mi sorprendo a dissentire dallo stimato Michele Serra. Dal suo articolo pubblicato su Repubblica dello scorso 27 settembre col titolo “Alla ricerca dell’identità perduta”, che condivido in larga misura, emerge infatti il sospetto che l’attenzione dell’autore sia rivolta unicamente alle deficienze identitarie del PD, al suo elitarismo ed alla incapacità di rinunciare alle posizioni di potere.
Scrive, tra l’altro, Serra: «Il PD, vuoi per senso di responsabilità vuoi per affezione al potere (dunque per una virtù e per un vizio) era diventato il partito simbolo di questa perenne emergenza repubblicana, tanto perenne da sembrare, alla fine, pretestuosa anche quando motivata dagli eventi.» E più avanti: «… il ricorso alle urne è parso e forse è stato davvero, dalle parti della politica “responsabile”, l’ultima delle risorse, un appuntamento da rimandare, un rischio da evitare, e questo ha generato un contraccolpo quasi fisico: le urne sono diventate, per milioni di italiani, l’arma da impugnare contro il Palazzo, contro la Casta.»
Sembra dunque di capire che Serra giudichi negativamente la funzione svolta dal PD aderendo ai governi Monti, Conte bis e Draghi, e che non ne consideri il costo in termini di identità. D’altra parte anche il deputato Enrico Borghi, ci riferisce Stefano Cappellini su Repubblica del 29 settembre, lamenta che «Non possiamo più essere la protezione civile della politica italiana.»
In proposito, premesso che è del tutto arbitrario confrontare ciò che è stato con ciò che sarebbe potuto essere, è tuttavia lecito, anzi doveroso, chiedersi cosa sarebbe successo se il PD avesse negato il suo sostegno ai governi appena ricordati. Anche Serra avrà dovuto constatare quanti danni al Paese ha recato l’unico governo, quello giallo-verde, al quale il PD non ha partecipato. In precedenza il governo Renzi, nato dopo l’unica affermazione elettorale dei democratici, si è reso anch’esso responsabile di gravissimi danni (tra cui il vituperato Rosatellum), ma aveva un piccolo neo: era guidato da un intruso, uno che nel PD non sarebbe proprio dovuto entrare. È questa, si, è stata la vera colpa del PD, così come lo sono state l’approvazione dello stesso Rosatellum e del job act.
Quando ha concorso a governi di coalizione, il PD si è messo in una posizione oggettivamente difficile, nella quale il suo programma doveva necessariamente essere annacquato per coesistere con le richieste demagogiche, variamente assortite ed inquinate, avanzate da tutti i populismi presenti in Parlamento. Quest’atteggiamento responsabile non ha fatto mai notizia e l’informazione ha, come sempre, dato molto più spazio alle pretese, a volte assurde, di chi minacciava la caduta di governi tecnici o di larghe intese. Cionondimeno non sono mancati gli errori, le ambiguità, timidezza, un sistema correntizio che ha determinato situazioni incredibili come la defenestrazione del sindaco di Roma Ignazio Marino e tanti altri colpi di mano. Non sono mancati però sia pure rari atti di coraggio come la fermezza nel sostenere il decreto Zan, fatto cadere dal solito Renzi o la discussa, ma reciproca, esclusione dei 5Stelle. Certo, la campagna elettorale è stata piatta ed ambigua mostrando i limiti oggettivi di un partito nel quale, alla fine, i maggiorenti si sono sottratti al confronto faccia a faccia nei collegi uninominali rifugiandosi nelle liste bloccate. Ma tuttavia non può essere sottaciuta la distanza tra un Letta, che si è assunto la piena responsabilità della sconfitta, e un Salvini che non ha riconosciuto la sua, ben più pesante, con la incomprensibile connivenza di tutto il suo partito. Né possiamo dimenticare che nel PD bene o male troviamo la migliore dirigenza politica del Paese
Il PD va dunque verso un congresso dal quale possiamo attenderci qualunque novità, non ultimo il suo scioglimento, proposto da alcuni suoi esponenti. Qualunque sarà l’esito formale di questa assise, sarà necessario che ogni cosa si muova intorno ad un programma schiettamente ambientalista, egualitarista ed europeista che consenta, se possibile, la costituzione del famoso campo largo ma che, in mancanza, cammini con le sue gambe. Una valida base di discussione c’è già ed è illustrata nel volumetto edito da Donzelli nel 2021 col titolo “Disuguaglianze, Conflitto, Sviluppo: la pandemia, la sinistra e il partito che non c’è”, un colloquio con Fabrizio Barca, iscritto al PD nel 2013 e già apprezzato ministro per la coesione territoriale nel governo Monti. Una resurrezione è dunque possibile.