Meglio dirlo chiaramente senza tema di smentite, a meno di qualche ignorante che pur sempre lo trovi: quello che è successo al reattore numero quattro di Chernobyl, poteva succedere solo là. Per motivi strutturali e di progettazione. E nonostante questa loro peculiare potenzialità, si sono messi di impegno per farlo succedere. C’è voluta tutta l’insipienza dei piani quinquennali, che ha determinato l’agire del sempre presente “fattore umano”, l’egoismo e la volontà ideologica di fare carriera a qualunque costo, oltre a un’insipienza colpevole nella progettazione. Nel famoso reattore RBMK, infatti, la punta delle sbarre di controllo era di grafite, un metallo che accelera, e non frena, la reazione nucleare. Avete letto bene, nella patria del socialismo reale avevano commesso un errore di quelli da fucilazione sul posto: la punta delle sbarre di controllo, cioè di quelle sbarre di boro che moderano fino a spegnerla se necessario la reazione di fissione, era costituita da un metallo che invece l’accelerava, mandandola totalmente fuori controllo. Come se non bastasse avevano omesso, con grande sprezzo del pericolo, la costruzione di un contenitore esterno, che poi hanno dovuto erigere a reattore scoperto, per impedire la fuoriuscita nell’ambiente di radiazioni. Contenitore che nelle patrie del capitalismo, ivi compreso la nostra, era presente per legge.
Ma, non ci crederete, e fate male, nonostante tutto questo dilettantismo progettuale, o semplicemente perché costava troppo, si sono messi con la “capa e con il pensiero” perché tutto andasse a puttane. E devo dire che ci sono riusciti. Mentre stavano facendo un test di sicurezza. Tutto è cominciato con un test di sicurezza. Una cosa di quelle che non si possono dire né immaginare nemmeno nei peggiori incubi di un antinuclearista sul piede di guerra. Dovevano verificare se l’inerzia delle turbine, che andavano a spegnersi per una simulazione di un guasto all’impianto elettrico, potesse “far partire” i generatori di emergenza a gasolio per l’alimentazione delle pompe dell’acqua. Quella inerzia, sostanzialmente energia elettrica prodotta dalla turbina prima del completo spegnimento della stessa, doveva coprire i sessanta secondi che ci metteva l’alimentazione di emergenza a entrare in funzione. Sessanta secondi di interruzione all’alimentazione dei generatori di emergenza erano un intervallo di tempo troppo rischioso. Un minuto senza acqua poteva dire pericolo serio di surriscaldamento del nocciolo. Non era cosa. Perciò il test di sicurezza, con il reattore a soli 700 MW di potenza e spegnimento delle turbine. Era la quarta o la quinta volta che ci provavano, avevano sempre fallito. L’ultima volta fu il 26 aprile del 1986. Fecero il test con il botto. Una cosa inaudita e, per certi versi, orrenda. Tanto che l’annichilito compagno segretario Michael Gorbačëv ebbe a dire che la fine dell’Unione Sovietica era cominciata con il disastro di Chernobyl. E, ovviamente, non si riferiva alla sola, pur micidiale, fuori uscita di radiazioni. Forse aveva ragione o forse no. Io credo che abbia inciso, e molto.
Sia come sia, noi cosa c’entravamo con tutto questo? Niente. I nostri reattori erano totalmente altro in termini di progettazione, di realizzazione e di standard di sicurezza, tra i più elevati per la tecnologia di quegli anni. Oltretutto non avevamo né piani quinquennali né quote di produzione da rispettare in nome e per conto del Soviet dei popoli. Cosa c’entravamo con quei campioni di democrazia e di trasparenza che si guardarono bene dall’avvertire il mondo intero di quel terribile guaio che avevano combinato, per dare così a tutti noi la possibilità di correre ai ripari per tempo? Boh. Questo, del mancato tempestivo allarme, grida ancora vendetta al cospetto di Dio. Di qualunque dio voi vogliate. Per giorni e giorni fecero finta. Sostennero, in sostanza, che non era accaduto nulla; nel paradiso dei lavoratori, il sole dell’avvenire splendeva come al solito. Come sempre. Se non fosse stato per gli svedesi che non si capacitavano dei livelli di radioattività che i loro strumenti registravano, hai voglia tu a sapere la verità. Per poterti proteggere. Invece di spiegare tutto questo e di spiegarlo bene a tutti noi, i nostri politici decisero che era il momento di chiedere al popolo. Dopo averlo terrorizzato per mesi senza una spiegazione degna di questo nome, i nostri così detti politici, chiesero al popolo cosa fare del nucleare. Per la produzione di energia elettrica.
La risposta poteva essere diversa? Direi di no. E siccome, spesso, la politica in Italia non è né onore né responsabilità né dignità, le domande del referendum, tutto sommato erano scritte in modo che… e abbiamo rinunciato a essere una nazione non ricattabile riguardo all’energia. Senza la quale, permettete una battuta, “non si cantano messe”.
Un capolavoro di ipocrisia, quel referendum. Solido. Solidissimo. Che resiste non solo alla verità dei fatti ma anche all’usura del tempo. Infatti, ancora adesso gli antinuclearisti, in buona o in cattiva fede, ci ricordano, a noi che vogliamo solo ragionare insieme, il referendum. Quel referendum. E lo fanno il più delle volte con un piglio deciso di compatimento sprezzante. Ci ritorneremo, state sereni. Perché in quel momento eravamo la terza potenza nucleare al mondo, per il nucleare pacifico ― che non ha niente a che vedere con le bombe atomiche né di Hiroshima né di Nagasaki ― mentre adesso siamo in balia dei cosacchi dello zar o di qualche baldanzoso tuareg. In balia di nazioni e stati oggettivamente non democratici o dall’instabilità, anche violenta, cronica.
Va bene, se dobbiamo dire la verità, diciamola. Non c’è stato solo Chernobyl. Come incidente, di quelli seri. Ci sono stati due altri incidenti al nucleare per scopi pacifici. Eccoli. Il primo è quello di Three Mile Island, dove per la verità non ci furono problemi per l’ambiente esterno. Tutto ― dove tutto significa un possibile danno grave al reattore: si paventò, infatti, il melt-down, cioè la fusione del nocciolo, perché andò in tilt il sistema di raffreddamento ― fu limitato alle zone circoscritte al reattore stesso. Grazie al contenitore in acciaio e cemento, di cui Chernobyl era sprovvisto, nessun impatto ambientale esterno fu rilevato. Quell’incidente, senza morti e senza conseguenze all’esterno, mise in allarme i progettisti che da quel momento si concentrarono ancora di più su sistemi di sicurezza innovativi. In particolare, con la progettazione e la messa in opera di sistemi di protezione detti passivi, perché al contrario di quelli attivi, non prevedono l’intervento umano.
Possiamo dire per brevità: sistemi automatici non legati all’intervento né alla capacità e, non ultima anzi, alla lucidità dell’operatore. Lucidità che ha due possibili “rivali mortali”, la disattenzione e il panico. Fu una valvola del sistema di raffreddamento non aperta, da chi avrebbe dovuto farlo, a combinare quel pasticcio serio a Three Mile Island. Quindi, disattenzione grave. Ed è ovvio che in condizioni di emergenza, il panico può diventare un fattore decisivo. Di qui, la risoluzione ancora più convinta di continue e mirate e propedeutiche esercitazioni, che in qualche modo devono rendere l’operatore in grado di reagire, per così dire, di default. Se sotto pressione. Si decise, inoltre, sebbene per l’ambiente esterno non ci fu nessunissimo aumento di radioattività, per sistemi di sicurezza in modalità ridondante. Tecnicamente definita sicurezza evolutiva. Come a dire, meglio una pompa di raffreddamento in più che in meno, e nessuno rompesse l’anima per i costi.
Alcuna conseguenza a Three Mile Island ma… Prima dell’incidente, un paio di anni prima, era stato realizzato un bellissimo film con una splendida Jane Fonda che da ambientalista convinta e da grande attrice ce la mise tutta per farci spaventare. Quel film fu, per così dire, il “termine di paragone”, catastrofico ovviamente, per il reattore di Three Mile Island. Il film è molto bello e fa bene a non sottacere il rischio vero, quello della possibile fusione del nocciolo del reattore. Che non ci fu. La fuga radioattiva interna al reattore fu dovuta al surriscaldamento non alla fusione del nocciolo, e non ci fu nessuna fusione perché la sicurezza complessiva seppure in emergenza o, forse proprio perché in emergenza, funzionò alla grande. Nonostante “Sindrome cinese” sia un film fatto molto bene e nonostante la mia grande ammirazione per Jane, devo purtroppo sottolineare che era un film. Quindi sostanzialmente finzione. Magari politically correct, ma finzione. Con uno smaccato spirito di parte sincero, quello green, però, per me, non condivisibile. Perché fomentare una paura irragionevole e irrazionale per il nucleare pacifico è sbagliato. Assai sbagliato. Oltretutto, se non fosse chiaro, da quell’incidente, facendo tesoro di quell’incidente, si è arrivati ai reattori di terza generazione. Oserei dire intrinsecamente sicuri. E niente parolacce o bestemmie variegate nei miei confronti; ve ne sarei veramente grato.
C’è stato, un terzo in ordine di tempo, e ultimo, incidente al nucleare pacifico, l’incidente di Fukushima dell’11 marzo del 2011. Ne scrivo volentieri. La scala Richter è, per molti versi, più affidabile della scala Mercalli per la classificazione dei terremoti, in quanto misura l’energia sprigionata da un terremoto, la magnitudo, e non genericamente i danni causati in base all’intensità. Ebbene, il terremoto che investì la regione di Fukushima fu di magnitudo nove. Un evento mai visto prima. Ma la centrale non è crollata, affatto. Come accadde, permettete un poco di orgoglio nazionale, con la centrale di Caorso, costruita addirittura nel 1970: nel 2012 un terremoto di magnitudo sei colpì la Pianura Padana con devastanti effetti distruttivi su manufatti e case anche di nuova e recente costruzione ma la centrale non si fece un graffio.
Quindi, a Fukushima tutto a posto? Assolutamente no, nemmeno per sogno. Il disastro è stato classificato come settimo, ed ultimo grado, della scala INES, la scala che misura la gravità degli incidenti ai reattori nucleari. Settimo grado, quindi esattamente come Chernobyl. Solo che le differenze sono talmente tali, sia nelle cause, sia nei morti, sia nell’emergenza, sia nella gestione delle emissioni dei radionuclidi in atmosfera, che nessun paragone è possibile. L’efficienza dei giapponesi dimostrò tutto il suo valore a fronte di eventi naturali mai visti né immaginati. Il terremoto, ripeto di magnitudo nove, e per capirci Messina e Reggio furono completamente rase al suolo da un terremoto di magnitudo sette o poco più, non mise affatto in difficoltà i responsabili della centrale. Che, come da protocollo, spensero i reattori in attività e cioè l’uno, il due e il tre. Contemporaneamente entrò in funzione il sistema di raffreddamento di emergenza per evitare qualunque problema di surriscaldamento del nocciolo e, quindi, come eventualità estrema, il melt point. Il guaio fu che quell’evento del tutto eccezionale, il terremoto, produsse un altro evento terrificante, uno tsunami con onde alte fino a tredici metri. Onde che superarono le barriere di cemento alte “appena” cinque metri poste a protezione della centrale dal lato del mare. Il mare invase la centrale e arrivò ai generatori a diesel di emergenza che alimentavano le pompe per l’acqua di raffreddamento, danneggiandoli. Senza alimentazione le pompe smisero di funzionare e il raffreddamento dei reattori divenne impossibile. Tre di loro si surriscaldarono, e, siccome a volte sembra che non ci sia mai fine al peggio, nel quarto reattore ci fu un’esplosione di idrogeno con conseguente fuori uscita dalla vasca di contenimento, e immissione in atmosfera, di iodio, cobalto e cesio ovviamente radioattivi. Poteva essere un’ecatombe. Non lo fu. Perché con grande perizia, coraggio e determinazione, le squadre di soccorso riuscirono a mettere sotto controllo l’emergenza.
In estrema e un po’ fuorviante sintesi: il mare aveva combinato quel casino, l’acqua di mare l’avrebbe risolto. Fu, tra le tante, la decisione decisiva, scusate il bisticcio di parole. I reattori vennero letteralmente sommersi da un oceano di acqua che grazie al suo alto calore latente di vaporizzazione, si chiama così e ne facciamo le spese quando teniamo fame e non possiamo buttare la pasta perché l’acqua nella pentola sembra non bollire mai, riuscì a riportare a più miti consigli i tre reattori e la vasca di contenimento. Acqua che ovviamente non è stata rimessa in mare. Non ancora. Si pensa che le operazioni cominceranno nel 2023, ma non è detto. Prima di rimettere l’acqua utilizzata per il raffreddamento nell’oceano Pacifico verrà ancora una volta controllata la concentrazione dei radionuclidi, cioè la radioattività, che le autorità giapponesi, sotto l’egida di enti internazionali, si sono impegnati a riportare a livelli comparabili se non addirittura inferiori alla radioattività naturale dell’oceano. E una volta accertato che la purificazione e la diluizione delle acque inquinate dalle radiazioni abbiano raggiunto il livello della radioattività naturale, la remissione sarà graduale negli anni. Questo è stato, questo è, Fukushima. Niente a che vedere con Chernobyl. L’unico morto a Fukushima fu il Direttore della centrale. Perché da quelle parti il senso di responsabilità e la coscienza del proprio dovere sono cose serie. Questi sono stati gli unici tre incidenti al nucleare per scopi pacifici.
Prevedo, a questo punto, una valanga di accuse e polemiche, tutte con il retropensiero, non tanto retro per la verità, del pericolo immane costituito da una centrale nucleare. E allora potrei, per completezza di informazione e valida polemica, utilizzare un numero come dato di riflessione, e cioè che il crollo della diga di Banqiao, sul fiume Ru, in Cina fece in un sol colpo 171.000 morti e nessuno mai si è sognato di sospendere la costruzione delle dighe.
Senza nessuna polemica mi permetto di dare un altro dato. E ognuno penserà quello che vuole. Si farà una sua idea, e se vorrà ne parleremo. Esistono attualmente nel mondo 442 reattori nucleari in funzione per la produzione di energia elettrica; se si sommano le ore di funzionamento di tutti i quattrocento quarantadue reattori si arriva a milioni e milioni e ancora milioni di ore di operatività senza incidenti degni di rilievo. A meno dei tre citati, e descritti.
Continua …