Giovanni Renella, da raffinato narratore, in questo racconto ad “un’avventura [fa] subentrare un’altra avventura in un caleidoscopio di eventi guidati da mots clés che formano la cerniera dei singoli mutamenti. Come in una trecentesca ballata provenzale, l’autore inserisce un richiamo verbale che lega gli eventi in rapida successione, dando l’impressione che tra essi, pur così lontani nei contenuti, si possa leggere una sorta di continuità inestricabile. E così uno scoppio di fuoco, un faro nella notte, un bagliore di luce, un ascensore in movimento, un sordo scatto metallico, un dialetto incomprensibile, uno sbarco, delle immagini strazianti, l’affacciarsi ad una finestra, la tastiera di un computer aprono imprevisti spiragli e metafisiche immensità in cui si annegano situazioni diverse e protagonisti in balìa del caso” (Ciro Postiglione).
Era trascorso parecchio tempo da quando aveva cominciato a lottare con la pagina bianca, in un corpo a corpo che rischiava di metterlo al tappeto. Aveva a disposizione meno di un mese per consegnare all’editore la prima stesura del nuovo romanzo. Con la scusa di voler mantenere il riserbo, era riuscito a creare un’attesa quasi spasmodica fra gli addetti ai lavori e a rassicurare la casa editrice, tanto da riuscire a proiettarla già nei conteggi dei futuri introiti. Con la popolarità del primo libro, Andrea Lamagna aveva impresso il suo nome nella hall of fame degli autori di maggior successo. Con il passare del tempo sembrava, però, aver esaurito la vena artistica e qualsiasi spunto gli venisse in mente finiva con l’apparirgli banale. Non passava giorno in cui non si rammaricasse di aver accettato, così presto, di scrivere un altro libro. L’immediato successo dell’esordio lo aveva convinto di possedere un’inesauribile capacità di articolare e raccontare storie; ora, invece, avrebbe dovuto fare i conti anche con la penale prevista dal contratto nel caso non avesse rispettato i tempi di consegna del nuovo romanzo. Lo schermo vuoto del computer gli rimandava la dimensione del suo fallimento. Tanto valeva spegnerlo e uscire di casa. Da troppo era rintanato nel suo studio a fumare mezzi toscani aromatizzati al caffè, ma di idee neanche l’ombra. Infilò il cappotto e scese per strada. L’aria fredda dell’inverno inoltrato gli sferzò il viso e quasi si pentì di aver abbandonato il tepore di casa sua; ma ormai era uscito e rientrare sarebbe stato l’ennesimo, piccolo, fallimento inanellato in quella giornata. Si lasciò trasportare, più dai pensieri che dai passi, sino a perdersi nel dedalo di vicoli della città antica. L’oscurità della sera gli impediva di riconoscere quei luoghi che, in altri tempi, era sicuro di aver frequentato. Continuando a camminare, Andrea fu attratto dalla luce proveniente da un’abitazione a piano terra. Senza un motivo preciso si ritrovò davanti alla finestra che illuminava il buio fitto della stradina e guardò dentro.
Seduti intorno a un tavolo, illuminato da una lampadina che pendeva dal soffitto, quattro uomini erano intenti a giocare a carte. Il mucchio di soldi davanti a uno di loro non lasciava dubbi su chi stesse vincendo. Le mani della partita si succedevano rapide, ma da un’ora abbondante l’esito era sempre lo stesso. Per quella sera era chiaro chi fosse il prescelto della “dea bendata”; ma qualcuno, seduto a quel tavolo, cominciava a dubitare che fosse solo fortuna. Il nervosismo dei perdenti era palpabile e la tensione cresceva a ogni giro di carte. Di volta in volta le puntate di chi era sotto aumentavano, nel disperato tentativo di recuperare i soldi persi. Un cenno d’intesa, quasi impercettibile, fra chi stava vincendo e il giocatore che aveva di fronte fu notato da uno degli altri due. Il tavolo, con il suo carico di carte, soldi e vane speranze, rovinò rumorosamente sul pavimento. I quattro si ritrovarono in piedi, con le sedie rovesciate a terra e una pistola spuntò come dal nulla. Il rumore del colpo risuonò, sordo, dentro la stanza.
A un primo scoppio ne seguirono altri e, come d’incanto, il cielo fu illuminato dai bagliori dei fuochi d’artificio. Lo spettacolo pirotecnico concludeva la giornata delle celebrazioni del santo Patrono, ma il maresciallo dei carabinieri, Esposito, non immaginava che lo aspettasse una lunga notte. Sei mesi prima, dopo la separazione dalla moglie, il trasferimento nella caserma di quel piccolo centro gli era sembrato l’occasione giusta per voltare pagina. Dopo anni passati a contrastare il crimine organizzato nelle grandi città, quel tranquillo presidio di paese gli sembrava ideale per avvicinarsi alla pensione e lasciarsi alle spalle una storia d’amore, durata tanto, ma finita male. Non fu lo squillo del cellulare a coglierlo di sorpresa, quanto il numero da cui proveniva la chiamata: era quello dell’ex moglie. Non lo aveva mai cancellato perché c’era Flora a tenerli ancora uniti, la loro unica figlia. Sebbene avesse venticinque anni, per Carmine Esposito era sempre la sua bambina. Prima di rispondere fu assalito da uno strano senso di angoscia, che si trasformò in un incubo, ascoltando le concitate parole della sua ex in lacrime: Flora non era ancora rientrata a casa e da ore il suo iPhone squillava a vuoto. Dopo aver tentato invano di tranquillizzare la donna, il maresciallo Esposito chiuse la telefonata e decise di recarsi al comando provinciale dell’Arma. Dalla centrale operativa avrebbe provato a rintracciare la posizione del cellulare della ragazza. In un attimo fu pronto a muoversi: entrò in auto, mise in moto e si inoltrò, nel buio della notte, verso la città.
Il buio era così fitto che gli sembrava di procedere a luci spente. Guidando nella notte, l’avvocato Curcio controllò più volte di aver acceso i fari, finché si rassegnò all’oscurità che aveva avvolto la strada, la sua auto, ma anche parte di sé. Durante il tragitto, che doveva ricondurlo a casa, non poté smettere di pensare all’incontro del pomeriggio. La moglie del suo assistito, in una causa di divorzio, gli aveva chiesto un appuntamento. Una proposta insolita per quel genere di cause e non solo per quelle, ma il cospicuo patrimonio del suo cliente e la necessità di preservarlo da richieste troppo onerose, lo avevano convinto ad accettare l’invito della signora. A colpirlo fu l’inaspettata avvenenza della donna. Gaspare Curcio non era certo un uomo e un avvocato di primo pelo: sposato con un’affascinante funzionaria di banca, padre di due figli e con vent’anni di brillante carriera alle spalle. La straordinaria bellezza e soprattutto i modi seducenti di quella splendida quarantenne ebbero, da subito, partita vinta anche sulla sua consolidata esperienza nel trattare quel genere di situazioni. Quando, qualche ora dopo, si rimise in auto, aveva l’amara consapevolezza di aver calpestato ciò che era stata la sua vita fino a quel momento, insieme a buona parte del codice deontologico forense. I suoi sensi avevano ceduto al fascino e acconsentito a un accordo che avrebbe favorito la donna, tradendo la fiducia del suo facoltoso cliente. La lusinga di nuovi incontri, lo aveva indotto a garantirle una soluzione consensuale e vantaggiosa, che lui avrebbe spacciato al suo assistito come: “ineluttabile, ragionevole e conveniente”. Appagato, ma con i sensi non ancora sazi, cercava invano di nascondere a sè stesso che, nel giro di un pomeriggio, si era trasformato in una merda d’uomo e di avvocato. Procedeva spedito, circondato dall’oscurità della notte, quando, all’improvviso, un bagliore gli accecò la vista.
La luce della fiamma illuminò, per un attimo, l’angolo del cortile in cui era seduto. Solo dopo aver acceso la sigaretta, Michele si accorse di aver usato l’accendino di suo padre: un fumatore di due pacchetti di bionde al giorno, che ora lottava in una stanza d’ospedale, due piani più su, tra la vita e la morte. Al suo arrivo al pronto soccorso lo aveva trovato già intubato e privo di conoscenza: un infarto, gli avevano detto. Erano mesi che non lo vedeva, giusto qualche rapida e formale telefonata di tanto in tanto. Da quando sua madre era morta, i loro contatti si erano diradati. Non che prima comunicassero granché, ma la mamma riusciva a mantenere vivo quel rapporto fra padre e figlio e a informarli l’uno della vita dell’altro. Quanto avrebbe desiderato, Michele, che le cose fossero andate in maniera diversa! Non che il padre non gli volesse bene, questo lo intuiva, ma il carattere chiuso del genitore era stato, per lui, motivo di malessere fin da bambino. Ancora, a cinquant’anni, ricordava la gioia delle uniche due volte in cui erano andati al cinema insieme, e soffriva per i tanti momenti mancati che avrebbero dovuto, invece, vederli uniti. Con l’adolescenza c’era stata la presa d’atto di quell’ assenza, ormai irreversibile. Dal punto di vista materiale non gli aveva fatto mancare mai nulla; ma Michele avrebbe rinunciato a tutto in cambio della presenza affettiva di quell’uomo, cui poter confidare le sue ansie, di bambino prima, e di ragazzo poi, e ricevere le istruzioni per l’uso della vita. Tirò l’ultima boccata, spense la sigaretta e, stringendo in tasca l’accendino del padre, si avviò verso l’ascensore.
L’ascensore arrestò la sua corsa all’ultimo piano. Un uomo uscì e si avviò verso la suite. Non c’era anima viva. Gli bastarono pochi secondi per far scattare la serratura della porta e introdursi nel lussuoso appartamento dell’albergo. Dopo giorni di pedinamenti e appostamenti, era certo che non ci sarebbe stato nessuno. Fece luce con una piccola torcia elettrica e fu subito colpito dallo skyline che si poteva ammirare dall’enorme vetrata del terrazzo. Per qualche attimo rimase come incantato dai contorni luminosi della città, che sembravano disegnare l’incantevole panorama del golfo. Poi tornò a occuparsi del lavoro per cui era stato pagato. Non fu difficile trovare la cassaforte. Conosceva il modello e gli furono sufficienti un paio di minuti per aprirla. Stando agli accordi, poteva tenersi soldi e gioielli: chi gli aveva commissionato il furto era interessato solo al contenuto di una cartella di cuoio. Ripose in una borsa contanti, preziosi e ciò che gli era stato richiesto e uscì dalla stanza. Mentre si allontanava dall’albergo pensò ai soldi ricevuti e al valore di ciò che aveva trovato nella cassaforte: davvero tanto, troppo, persino per l’ingaggio di uno in gamba come lui! E poi, solo per dei documenti … Derogando alla regola che si era dato, di non impicciarsi mai degli affari dei suoi “clienti”, decise di dare un’occhiata alle carte trafugate dalla cassaforte. Mancava circa un’ora all’appuntamento per la consegna della cartella di cuoio. Entrò in un bar del lungomare e ordinò un caffè. Seduto a un tavolino cominciò a leggere i documenti. Spuntarono anche delle foto e, ciò che lesse e le immagini che vide, gli procurarono un senso di inquietudine e di smarrimento mai provato prima. Ebbe la certezza che, se avesse consegnato quei documenti come pattuito, un attimo dopo lo avrebbero assassinato. Uscì dal bar e si allontanò con la consapevolezza che la sua vita non sarebbe stata più la stessa, o meglio con il presentimento che avrebbe dovuto far sparire ogni traccia della sua esistenza, se voleva continuare a vivere. Aveva percorso appena qualche centinaio di metri, quando uno scatto secco, metallico, lo costrinse ad arrestare il passo.
Quante volte, in addestramento, aveva sentito e imparato a riconoscere il rumore dell’innesco di una mina antiuomo. Lo stesso che Tommaso aveva avvertito sotto il suo anfibio un attimo prima. Era rimasto immobile, come gli avevano raccomandato di fare e aveva lanciato l’allarme. La marcia della colonna di soldati si era arrestata e il sottufficiale gli si era avvicinato. Via radio aveva richiesto l’intervento degli artificieri: dieci minuti e sarebbero arrivati sul posto. Il graduato aveva fatto allontanare tutti gli altri ed era rimasto, da solo, accanto a Tommaso. Si chiamava Francesco e tutti e due provenivano da un piccolo paese dell’entroterra calabrese. Erano amici e avevano scelto di arruolarsi nell’esercito perché, dalle loro parti, non erano molte le opportunità di lavoro. Le “missioni di pace” le avevano accettate per mettere un po’ di soldi da parte; ma di pace, in quei paesi in guerra, ne avevano trovata davvero poca. Gli artificieri erano arrivati quasi subito e si erano messi al lavoro nel tentativo di disinnescare la mina calpestata da Tommaso. Il ragazzo sudava, più per la paura che per il gran caldo, tipico di quella zona desertica. Il terreno che circondava l’ordigno fu rimosso, prestando attenzione che la mina non fosse spostata al fine di evitare lo scoppio. Dallo sfortunato passo ormai erano già trascorse alcune ore e Tommaso percepiva le avvisaglie di imminenti crampi alle gambe, per l’immobilità a cui era costretto. Gli artificieri si accorsero che la situazione sarebbe potuta precipitare da un momento all’altro e indirizzarono uno sguardo preoccupato al sottufficiale, che non si era allontanato dal posto neanche per un attimo. Francesco si rivolse all’amico e cominciò a parlargli nel dialetto della loro terra, incomprensibile per i due artificieri veneti, ma chiaro e fluente per il compaesano e, in quel momento, fu quasi musica per le sue orecchie.
I due comunicavano in un dialetto che risentiva degli influssi delle tante dominazioni straniere che si erano avvicendate dalle loro parti. Stavano scambiandosi informazioni importanti per l’indagine in corso, ma i poliziotti addetti alle intercettazioni non riuscivano a cogliere il senso di quello che dicevano. Ascoltando la sbobinatura di quei dialoghi, il vice questore Torre si rese conto che, di quel passo, non ne avrebbe cavato neanche il cosiddetto “ragno dal buco”. Intuiva di non avere molto tempo a disposizione e avvertiva l’incombenza di qualcosa di grosso che doveva accadere, ma non aveva idea di cosa si trattasse e, soprattutto, di dove e quando dovesse verificarsi. La soffiata di un informatore era servita a individuare un’utenza telefonica sospetta, che era stata subito messa sotto controllo: non era poco, ma non bastava. Il contenuto delle rare telefonate, fatte e ricevute, restava indecifrabile nel significato. Torre, con le dovute cautele per l’indagine in corso, temendo sempre una fuga di notizie, aveva fatto ascoltare, a diversi agenti della Questura, alcuni estratti delle telefonate, nella speranza che riuscissero a capire qualcosa. A un poliziotto parve di riconoscere l’inflessione dialettale di un suo lontano parente, ma non ci avrebbe giurato. Il vice questore, però, era in un vicolo cieco e non poteva che aggrapparsi persino a una remota speranza. Il parente dell’agente fu contattato dal Commissariato locale di Pubblica Sicurezza: in poche ore una volante lo avrebbe condotto al cospetto dell’investigatore. Quando se lo ritrovò davanti, Enzo Torre dovette faticare, non poco, prima per rassicurarlo circa l’assenza di accuse a suo carico e poi per spiegargli cosa volessero da lui. Dopo aver ascoltato le registrazioni, l’uomo restò in silenzio e i poliziotti pensarono di aver fatto un buco nell’acqua. Trascorsi alcuni minuti, durante i quali era chiaro che quella persona stesse combattendo contro un’ancestrale ritrosia che, istintivamente, gli suggeriva di tacere, si decise a parlare: avevano fatto centro! Messo da parte ogni residuo indugio, raccontò di una grossa consegna che sarebbe stata effettuata, di lì a due giorni, in un tratto ben preciso della costa, riferendo i dettagli ascoltati nella registrazione. Alla fine chiese il permesso di andarsene, ma rifiutò di essere accompagnato dal1’auto della polizia: per tornare al paese avrebbe preso il treno. Compreso lo sforzo che l’intera faccenda doveva essergli costata, congedandolo, il vice questore Torre lo ringraziò e si mise al lavoro con la sua squadra. Il tempo a disposizione era poco e dovevano essere pronti per l’imminente sbarco.
Le luci delle fotoelettriche illuminavano a giorno il tratto di spiaggia dove era avvenuto lo sbarco. Centinaia di immigrati clandestini, per lo più donne e bambini, erano ammassati sull’arenile. I volontari della Croce Rossa stavano prestando i primi soccorsi con acqua e coperte. Per molti di quei disperati, che presentavano chiari sintomi di disidratazione, era stato necessario ricorrere alle flebo. Gli scafisti dovevano averli abbandonati su quei gommoni, in balia del mare, almeno due giorni prima. Se non fossero stati avvistati da un elicottero della Guardia Costiera, non sarebbero sopravvissuti a lungo. Chi li stava soccorrendo non sapeva da dove provenissero e quelli non avevano idea di dove si trovassero. Con cenni della testa assentivano per ringraziare di tutto ciò che ricevevano, ma negli occhi avevano ancora la paura della morte, da cui erano scampati per un soffio. Le ambulanze facevano la spola fra la spiaggia e l’ospedale più vicino per ricoverare chi era in gravi condizioni. Non era certo la prima volta che le donne e gli uomini delle forze dell’ordine si trovavano di fronte a una situazione del genere, eppure alcuni di loro avevano le lacrime agli occhi, mentre soccorrevano quei bambini che potevano avere l’età dei loro figli. Fra i sopravvissuti, però, serpeggiava una strana inquietudine che li spingeva a volgere, di continuo, lo sguardo verso il mare: come se cercassero o aspettassero qualcuno. I fari delle motovedette fecero luce sugli oscuri presentimenti e sull’inquietudine di quella gente giunta fin lì dal nulla. Decine di corpi senza vita galleggiavano a poche centinaia di metri dalla riva. Un gommone doveva essere affondato prima dell’arrivo dei soccorsi, trascinando con sé le vite di quei disperati. Dopo qualche ora, i cadaveri giacevano allineati sulla sabbia: una tragica immagine che spezzava quelle sfortunate esistenze e i loro sogni.
Quelle immagini strazianti rimasero impresse a lungo negli occhi di Luca, anche dopo aver spento la televisione. Ogni volta, di fronte alla barbarie di una cronaca sempre più violenta, si prometteva di cambiare immediatamente canale; non voleva negare l’assurdità di una realtà che stentava a comprendere, ma, a quasi novant’anni, riteneva che fosse un suo sacrosanto diritto evitare ulteriori angosce. Purtroppo la TV, l’unica compagna di giornate interminabili, si comportava da amante infedele, propinandogli, a tradimento, ogni sorta di notizie di guai e sciagure che si registravano sulla Terra. Né, d’altra parte, le cataratte gli consentivano di rifugiarsi in quei libri che erano stati la passione di tutta una vita. Niente da fare! La televisione restava la sua unica finestra sul mondo, anche se non gli piaceva più ciò che vedeva affacciandosi.
Affacciato alla finestra del suo ufficio, all’undicesimo piano del nuovo Palazzo di Giustizia, il giudice Mormanno osservava, sprezzante, quel brulicare di persone che percorrevano la strada sottostante, in un andirivieni che gli ricordava l’agitazione delle formiche indaffarate. Né diversa era la considerazione che, in genere, aveva degli altri. Calato nel suo ruolo, diveniva il terrore di ogni imputato e gli avvocati stramaledicevano il destino quando ai loro assistiti toccava in sorte il giudice Nicolangelo Mormanno. Inviso ai colleghi, che non ne apprezzavano l’ostentata indole di inflessibile moralizzatore, erettosi a paladino dell’onestà, il giudice sembrava compiacersi dell’antipatia e del timore reverenziale che suscitava. Tuttavia, il magistrato era meno immune alle lusinghe delle umane debolezze di quanto volesse far credere; e da quando gli era stata affidata una causa di enorme risonanza mediatica, non riusciva a pensare ad altro che al modo di trarne vantaggio. Mormanno, infatti, aveva un’inconfessabile e inconfessata ambizione: approdare a un prestigioso incarico politico sulla scia della sua attività di giudice castigatore del malaffare. Il clima forcaiolo che si respirava nel Paese sembrava propizio per effettuare il passo decisivo. Doveva solo giocare bene le sue carte; e, affidandogli quel caso, la fortuna gli aveva servito una mano vincente. Nicolangelo Mormanno aveva studiato minuziosamente le carte del processo; da giudice esperto quale era, aveva colto una certa fragilità nell’impianto accusatorio. Temeva la sconfessione di una sentenza d’appello o peggio di Cassazione, ma il tempo giocava a suo favore. In quel momento bastava giungere a una condanna degli imputati e incassare la notorietà che ne sarebbe derivata: un eventuale capovolgimento del verdetto, a distanza di anni, lo avrebbe visto ormai assurto agli onori della cronaca politica. Bisognava concentrarsi sulle motivazioni della sentenza, che dovevano rivolgersi alla “pancia” dell’opinione pubblica: era certo che la gente avrebbe gradito e apprezzato un verdetto esemplare di condanna, che solo lui sapeva essere il frutto di un’ingiusta forzatura. Pronunciata la condanna, qualsiasi sentenza che, tempo dopo, l’avesse smentita avrebbe avuto un’eco minore. Rimosso ogni rigurgito etico, che avrebbe dovuto spingerlo a formulare ben altro verdetto, si allontanò dalla finestra per sedersi di fronte al computer e cominciare a scrivere.
Erano trascorsi alcuni giorni dal momento in cui aveva cominciato a pigiare freneticamente sulla tastiera, senza mai staccarsi se non per andare in bagno, mangiare un rapido boccone o per dormire qualche ora. Quando digitò il punto finale, Andrea Lamagna era esausto ed euforico al tempo stesso. Avvertiva l’irrefrenabile bisogno di una boccata d’aria e la necessità di sgranchirsi le gambe. Il giorno seguente avrebbe telefonato all’editore per prendere accordi circa la consegna del romanzo; ma, nonostante fosse notte, doveva uscire di casa. Infilò il cappotto e scese per strada. Senza rendersene conto si ritrovò a camminare fra i vicoli del centro storico, con il buio della notte che confondeva il suo senso dell’orientamento. La luce di una finestra a pianterreno attirò la sua attenzione. Stava per avvicinarsi, quando all’improvviso fu urtato da un uomo spuntato in strada come dal nulla. In una mano stringeva una cartellina di cuoio e, più che correre, sembrava scappare. Ma questa era un’altra storia e Andrea, che aveva solo voglia di dormire, si infilò in un vicolo sperando di ritrovare la strada di casa.