Nella canzone napoletana prevalgono sin dalle origini i temi dell’amore, della gelosia e del tradimento. Ci sono anche canzoni festose, allegre che esaltano la vivacità del popolo napoletano ed altre ancora che decantano le bellezze del Golfo, delle isole che ne adornano l’orizzonte e del Vesuvio che sovrasta il tutto. Centinai sono le canzoni che si ispirano a questa colorita varietà di temi e che hanno reso la musica della nostra città famosa in tutto il mondo.
All’interno di questi filoni, spesso confluenti nella medesima canzone, ci si imbatte frequentemente in allusioni maliziose e doppi sensi che hanno arricchito molte canzoni più o meno celebri. Solo raramente si incontrano riferimenti espliciti al desiderio sessuale, impulso che, cosa inevitabile nel clima sociale e culturale maschilista dei secoli scorsi, è riservato quasi esclusivamente agli uomini, mentre pertiene alle donne la seduzione, sia come istinto naturale che come calcolo utilitaristico. Prevalgono invece largamente doppi sensi più o meno velati, frutto del gusto per l’arguzia e la teatralità proprie del popolo partenopeo.
Può essere interessante tentare di tracciare il percorso di questa presenza, spesso geniale, e comunque capace di conciliare il gusto popolare, più grossolano, con quello raffinato dei salotti napoletani. Le prime manifestazioni di questo fenomeno, trascurando le filastrocche popolari, risalgono al ‘500, il secolo delle “villanelle”. In “Oi Ricciulina” la protagonista è accusata di fare “la li la”. Solo l’ultima strofa fuga ogni dubbio sulla natura della sua attività: “Stella Diana, si ruffiana, fai la puttana, fai “la li la”.
Non meno evidente è la metafora che attraversa “Sia maledetta l’acqua”, datata 1537, nella quale la sventurata protagonista lamenta che le si è rotta l’anfora per portare l’acqua: “Me s’è rotta la langella, marammé che pozzo fare?” Anche qui l ‘ultima strofa ci chiarisce perché una giovincella deve evitare simili incidenti: “La pignatella l’e ‘a sapé guardare ca po ch’è rotta nun se po sanare”. Risale invece al ‘700 “Amici, nun credite alle zetelle”, musicata da Paisiello, in cui si invitano gli sprovveduti (?) maschietti a diffidare delle moine delle “zetelle” che li vogliono sedurre “co lo ‘nda e lo ‘ndandara ‘nda” perché “la campana senza battaglio nun po sunà”.
Ma è nell’ ‘800 che metafore e doppi sensi si affermano stabilmente nei testi delle canzoni napoletane. Scopertamente sessista è “Lo paparacianno”, traduzione dialettale del barbagianni, non a caso “uccello” notturno. Il protagonista ha però affibbiato questo nome al suo cane decantandone strofa dopo strofa la bellezza con l’espressione “quant’è bello lo paparacianni”: ma già dalla prima strofa ci chiarisce che “lo paparacianni mio lo dongo a chi vogl’io” deludendo le numerose richieste che gli rivolgono tante aspiranti.
Appena un po’ più velato il riferimento sessuale contenuto in “Lo rialo” (Il regalo) in cui uno spasimante impaziente pretende dalla donna desiderata che gli dia la rosa che l’adorna: “dammè, dammè, dammella nun me fa chiù aspettà”. Appena un po’ più poetica è la rosa oggetto di “Ninuccia” il cui pretendente si accontenterebbe di poco: “ma vurria chella rosa sulamente addurà”.
In “Furturella” la richiesta si rivolge alla “vita stretta ed alla vucchella” ma anche qui viene sottaciuta la sua vera natura “che pienze, che fai, che dice m’‘a daje?”
Concludiamo questa prima parte citando un gustoso brano che nasce nel pieno dell’epoca d’oro della canzone napoletana, “‘Nu barcone” scritto nel 1906 da Salvatore Di Giacomo poeta non alieno dal ricorso ai doppi sensi. In questo caso più che di un doppio senso si serve di una metafora affidata a suoni onomatopeici ed esattamente “Tuppe, tuppe, tuppe, ttu” e “tracchete, tracchete, tracchete, tra”, il primo per indicare la bussata a una porta mentre il secondo rinvia alle mandate della chiave che la apre. Bussano ed entrano, in tempi diversi, due influenti pretendenti attratti da “‘na cammisa ‘e tela ‘e lino spasa ‘o sole” sul balcone di una casa di campagna. Di chi sarà questa bella camicia? Non può che appartenere a una avvenente fanciulla. Il primo a bussare è il figlio di un dottore seguìto poi da un notaio. Ad entrambi la porta viene aperta dalla madre della fanciulla ed entrambi saranno accolti grazie alle sue astuzie. La canzone si chiude infatti così: “…ma Rusina si sposa ‘o nutaro e o duttore ‘o cumpare lle fa, tracchete, tracchete, tracchete, ttra”.
N.B.: i brani citati, di cui si suggerisce l’ascolto, sono tutti reperibili su YouTube e rintracciabili seguendo il percorso Nuova Compagnia di Canto Popolare, per “Oi Ricciulina” e “Sia maledetta l’acqua”; Roberto Murolo per “Amice nun credite alle zetelle”, “ ‘Lo paparacianno”, “Lo rialo”, “Ninuccia”, “Furturella” e “ ‘Nu barcone”.
Continua…
Bellissimo lavoro, come sempre mitigato dal sarcasmo, diremo “mottoliano”, che è la tua firma. PS il privilegio di conoscerti mi ha fatto immaginare la lettura dell’articolo fatta da te! Un vero spasso letterario.