La Regione Campania si appresta a definire il nuovo Piano sociale per la lotta alla povertà in Campania. Le risorse finanziare disponibili sono così distribuite: € 98.782.200,00 per l’anno 2021; € 86.175.465,0 0 per l’anno 2022; € 68.848.200,00 per l’anno 2023; € 2.892.000,00 per le povertà estreme; € 1.500.000,00 almeno di cofinanziamento regionale annuale.
Si tratta di un’azione necessaria e urgente perché la povertà in Italia e in Campania continua a crescere, tanto da diventare un caso d’emergenza sociale. L’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ha reso disponibile una serie di rilevazioni assai utili per capire lo stato di salute del nostro Paese. Il Report sulla povertà in Italia nel 2020, pubblicato lo scorso anno, ha fatto emergere un quadro assai problematico. Si continua a registrare una crescita del numero di famiglie, e di individui, che vivono in condizioni di povertà assoluta e si conferma il forte divario territoriale sia da un punto di vista strettamente numerico sia per le dinamiche economiche e sociali così come sono state colte dall’Istituto di statistica.
Dal predetto Rapporto si evince che circa due milioni le famiglie, pari a 5,6 milioni di persone, in Italia vivono in una condizione di povertà assoluta, i poveri dei poveri individuati secondo criteri rigorosi. L’incidenza sulla popolazione totale è del 9,4% nel Mezzogiorno, del 7,6% al Nord e del 5,4% al Centro. Nel Mezzogiorno la situazione risulta “stabile”. A registrare forti incrementi, anche se da condizioni di partenza assai differenti, è il Nord.
Tra le regioni del Mezzogiorno la Campania risulta tra le prime negli indicatori “negativi”. I poveri e poverissimi sono tanti. Il dato è confermato anche dal numero delle richieste presentate dalle famiglie per usufruire del Reddito di Cittadinanza (RdC). Diversamente da quanto avvenuto nel resto d’Italia, nel secondo anno della sua applicazione (ricordiamo che il RdC è stato istituito e attivato nel 2020) il numero delle famiglie richiedenti è aumentato anziché diminuire, passando dal 17.4% al 19,6% in Campania. Per oltre 2 milioni di persone il RdC e le altre azioni d’inclusione sociale sono diventati, con tutti i limiti, indispensabili per la sopravvivenza.
Molti inoltre sono i Comuni che hanno programmato dei Progetti utili alla collettività (PUC), che teoricamente prevedono che i beneficiari del RdC debbano svolgere delle attività lavorative in ambiti precisi nel Comune di residenza, per almeno 8 ore settimanali, aumentabili fino a 16. Paradossalmente invece in Campania i Comuni (54 su 59), pur presentando 1.665 progetti per una previsione d’impiego di 16.191 persone, in minima parte sono stati destinati ai percettori del RdC, a fronte dell’obbligo di legge di impiego di almeno un terzo di loro sul totale.
Abbiamo chiesto al professor Rosario Patalano dell’Università Federico II di Napoli, attento commentatore delle vicende economiche e politiche del Mezzogiorno, una sua opinione sulla questione. Il professore si è così espresso:
«Il reddito di cittadinanza è stata una grande innovazione per la legislazione sociale italiana, allineando finalmente il nostro Paese ai più equi e avanzati sistemi di welfare. Tuttavia in questo istituto sono presenti ancora dei gravi limiti che determinano effetti distorsivi nel mercato del lavoro.
Il primo difetto è di ordine concettuale, il reddito di cittadinanza italiano, contrariamente alla sua denominazione, non è una forma di Basic Income (reddito di base), cioè un trasferimento di reddito di tipo universale e non condizionato, in quanto rivolto a tutti i cittadini senza alcuna distinzione di reddito e senza alcuna contropartita. Un istituto di questo tipo ha lo scopo di concedere a tutti i cittadini, indistintamente, il reddito sufficiente a condurre una esistenza dignitosa. Il reddito di cittadinanza è invece un trasferimento selettivo, rivolto agli individui in stato di povertà, inattivi e working poor, ed è quindi uno schema di Guaranteed Minimum Income (reddito minimo garantito), concesso anche ad integrazione dei redditi familiari insufficienti e condizionato ad un percorso di reinserimento lavorativo e di inclusione sociale.
Ma quest’ultima caratteristica dell’istituto, quella della condizionalità della prestazione, è certamente l’aspetto più critico che inficia di fatto l’istituto sottoponendolo alle più dure critiche. Secondo i dati disponibili, aggiornati al febbraio 2022, solo il 39,3% dei beneficiari ha dichiarato di essere stato contattato dai Centri per l’Impiego e il 32,8% dai Comuni. Dei beneficiari contattati dai Centri per l’Impiego solo il 40% ha sottoscritto il Patto per il Lavoro, e solo alla metà di questi è stata offerta una proposta di lavoro, che è stata rifiutata dal 56% degli stessi.
La proposta lavorativa viene rifiutata dal 53,6% dei beneficiari perché non in linea con le competenze possedute, dal 24,5% perché non coerente col proprio titolo di studio, dall’11,9% perché la retribuzione è considerata troppo bassa e, infine, dal 7,9% per problemi di spostamento. Secondo i dati, quindi, solo una piccola minoranza di beneficiari ha ricevuto una proposta di lavoro e ancora più esiguo è il numero dei percettori che è stato avviato al lavoro attraverso il reddito di cittadinanza. Questi elementi critici sono emersi in tutta la loro gravità solo dopo la crisi pandemica, un periodo di emergenza in cui il reddito di cittadinanza è servito, tra ristori e rimborsi (non sempre giustificati), a sostenere la parte più povera del Paese. svolgendo una funzione essenziale di ammortizzatore sociale, ma nello stesso tempo ha impedito una seria verifica della capacità dell’istituto di rendere effettivo l’inserimento lavorativo.
Il problema del reddito di cittadinanza non è quello delle frodi, facilmente eliminabili attraverso controlli più severi, ma della cronica incapacità dei Centri per l’impiego di svolgere la loro funzione istituzionale e le nuove figure dei navigator, come mostrano i dati, non hanno svolto un ruolo significativo nell’attività di job search, e di riduzione del mismatch tra domanda e offerta. Se queste criticità non sono corrette adeguatamente, il reddito di cittadinanza si riduce ad essere soltanto una misura assistenzialistica, oggetto di stigma sociale e terreno di propaganda politica qualunquista. Del resto appare paradossale concedere una retribuzione ad individui sani tenendoli poi inattivi e lasciare la grande e ignorata platea degli inabili con misere pensioni di invalidità.
Un istituto così importante e necessario per una moderna democrazia industriale non può quindi non essere riformato nella direzione di effettive misure di workfare (welfare to work), cioè di assistenza condizionata ad una prestazione lavorativa, anche di carattere sociale (lavori socialmente utili) o, in mancanza di impieghi, a percorsi obbligatori di formazione scolastica e professionale. Inoltre allo stato attuale, il reddito non raggiunge tutta la platea degli indigenti, ne sono esclusi gli immigrati da meno di 10 anni, i senza fissa dimora e gli anziani fragili.
Infine un elemento non secondario è l’effetto distorsivo dell’istituto sul mercato del lavoro che agisce di fatto come un disincentivo dell’offerta di lavoro unskilled. La concessione del sussidio ha aumentato le difficoltà delle imprese nel reperire lavoratori a bassa qualificazione, i più contigui alla fascia di povertà, e il settore più colpito è stato quello delle costruzioni. L’effetto distorsivo può essere corretto solo introducendo la misura del salario minimo legale (già presente in Francia, Gran Bretagna e Germania, e oggetto di una probabile prossima direttiva europea), rendendo quindi il lavoro più remunerato dell’assistenza e aumentando ovviamente i controlli sul lavoro nero. Senza l’introduzione del salario minimo legale il nuovo sistema di welfare è zoppo, mancando la parte che incentiva al lavoro. Ovviamente tale misura deve essere preceduta da una legge sulla rappresentanza e sulla contrattazione che eviti di trasformare il salario minimo in uno strumento per la riduzione generalizzata delle retribuzioni. Ma questo richiede una vera e propria rivoluzione nelle politiche per il lavoro fino ad ora seguite dal nostro Paese, politiche che sono state caratterizzate negli ultimi decenni da un approccio liberista e di deregulation selvaggia, e il quadro politico non appare ancora propenso ad intraprendere una strada diversa.»