Nel numero di domenica 22 maggio scorso, il Sole24ore, autorevole giornale economico-finanziario, riportava con molta evidenza il dato che emerge dal Conto annuale della Ragioneria dello Stato: il 44% dei dipendenti statali ha più di 55 anni d’età. Qualche sindacalista del settore pubblico o anche un semplice dipendente potrebbe esclamare: hanno scoperto l’acqua calda! Due semplici e forse scontate considerazioni.
La prima. Nonostante l’introduzione temporanea di alcuni correttivi alla legge Fornero, la tanto criticata quota 100 o i meccanismi previsti da opzione donna, il pensionamento degli impiegati pubblici è stato fortemente disincentivato e, anche quando si va in pensione con le regole ordinarie, i dipendenti pubblici sono “puniti” con il rinvio di 24/36 mesi nell’erogazione della liquidazione del trattamento di fine servizio o di fine rapporto (TFS/TFR).
La seconda. Sono decenni ormai che si teorizza e si pratica un sostanziale ridimensionamento dell’occupazione nel settore pubblico impedendo un effettivo ricambio generazionale. I concorsi sono diventati forse più selettivi e trasparenti, ma l’attrattività del settore pubblico continua a diminuire, lo si è visto nel bando per elevate professionalità, proprio per le persone altamente qualificate, visto che si mantengono bassi gli stipendi e si continua a tenere bloccato il sistema delle carriere.
In alcuni settori chiave, come la sanità, la crisi è emersa drammaticamente durante la pandemia e, nonostante alcuni correttivi, il problema della scarsità di personale continua a riproporsi. In altri settori non meno importanti, come gli uffici tecnici degli enti locali e delle regioni, la situazione non è molto diversa. Indiscutibile che nel corso degli anni l’occupazione nelle Pubbliche Amministrazioni (PA) è cresciuta a dismisura per compensare la cronica incapacità del sistema produttivo e industriale di assorbire l’offerta di lavoro, determinata anche dal boom demografico post guerra, ma in assenza di un processo di riorganizzazione degli apparati pubblici, la strategia di ridimensionamento ha determinato una situazione prossima al collasso del sistema con la riduzione nel numero e nella qualità dei servizi erogati.
Oggi la gestione dei processi amministrativi, l’attivazione di procedure progettuali e di controllo richiesti dal PNRR, le nuove esigenze emerse nel sistema sanitario durante la pandemia hanno riacceso i riflettori sulle PA senza però determinare l’elaborazione di una nuova e organica strategia. Valutare l’efficacia e l’efficienza delle PA usando solo i numeri ha sempre meno senso. Anche il dato anagrafico, preso isolatamente, non spiega nulla. Se in costanza di crisi occupazionale si ragiona così, si rischia di continuare a riproporre il ruolo dell’occupazione nel settore pubblico come una politica sociale al pari del tanto criticato reddito di cittadinanza, alimentando le rivendicazioni generaliste di alcune organizzazioni sindacali e di gruppi sociali più o meno organizzati.
Il nodo essenziale non è tanto quello numerico, il numero di addetti, ma quali sono compiti e i servizi che bisogna affidare alle PA. Parimenti essenziale è affrontare le modalità, l’organizzazione interna, rivedendo le procedure, il sistema gerarchico, che regolano i processi decisionali e produttivi, oltre, ovviamente a rivedere il sistema retributivo introducendo seri e trasparenti meccanismi valutativi corroborati da un sistema di incentivazione, come i premi in denaro, per aumentare la produttività. Fannulloni o meno, i pubblici dipendenti italiani sono i meno pagati d’Europa, e il sistema organizzativo è imprigionato in un insieme di regole medievali e di stampo militare, senza nessun riguardo all’obiettivo da raggiungere. Il sistema delle PA italiane continua a configurarsi come una gigantesca matrioska, dove, come diceva nostra nonna, “Cocco comanda a Ciccio e Ciccio comanda a Cocco”. Anche per questo facilmente corruttibile. Tipico è quanto avviene nel settore edilizio: regole per richiedere l’autorizzazione a realizzare opere semplici fino al più complesso sistema per il rilascio di concessioni a ristrutturare o costruire, diverse da comune a comune; il catasto che vive di vita propria ignorando il sistema delle concessioni edilizie e la conservatoria che gestisce la pubblicità degli atti; il sistema di regolazione delle compravendite con l’obbligo del versamento della gabella notarile, il cui costo cambia da città a città e da notaio a notaio. Un ginepraio che invece di rendere chiaro e trasparente il tutto favorisce illeciti più o meno gravi.
Potremmo continuare inserendo tra gli esempi la gestione dell’anagrafe, della motorizzazione civile e del pubblico registro automobilistico, la gestione del sistema fiscale, dalla semplice elaborazione e assegnazione del codice fiscale fino al pagamento dei tributi. Oggi anche una singola assunzione di una persona deve passare attraverso un sistema di forche caudine: l’indizione di un concorso prima, la procedura concorsuale, la presa di servizio, la registrazione dell’assunzione, la deliberazione della spesa, l’erogazione del primo stipendio. Controlli su controlli con una assurda perdita di tempo tanto che dalla prima decisione al primo stipendio, anche con una procedura accelerata, passano anni.
Il sistema delle PA in Italia è talmente ingarbugliato, talmente vecchio, corroso e corruttibile, che si è incapaci di introdurre delle semplificazioni tanto che quando vengono introdotte, come nel caso del bonus edilizio al 90% per il rifacimento delle facciate degli edifici privati, sono fatte così male che, da nord a sud, da est a ovest della Penisola, consentono a truffatori anche poco esperti di lucrare in modo vergognoso.
Il percorso da intraprendere è lungo ma se non inizia diventa difficile immaginare un tempo per la sua conclusione. Certo è che la cosa peggiore è dare i numeri buoni solo per tentare la fortuna giocandoli al lotto.
non ci sarebbe una logica spiegazione se … nel caos e nella confusione più totale si imbroglia meglio