Il prossimo 12 giugno saremo chiamati a pronunciarci sui cinque quesiti referendari in materia giudiziaria ammessi dalla Corte Costituzionale. Prima di affrontare nel merito le incognite legate a questo appuntamento si rendono necessarie alcune premesse. L’autonomia del potere giudiziario è un pilastro della vita democratica ed è per questo tutelata dalla nostra Costituzione. La discesa in campo di Berlusconi nel 1994 ha messo a dura prova questo principio. Molti ricorderanno gli espedienti messi in atto da Berlusconi per eludere la doverosa azione della magistratura nei suoi riguardi, dalle leggi ad personam alle magagne procedurali inscenate dalle falangi di suoi avvocati per prolungare i processi fino alla prescrizione dei reati che gli venivano contestati. Col suo avvento ebbe inizio, grazie soprattutto al sostegno dei media televisivi ottenuti in concessione dall’amico Craxi ma anche dalla stampa di sua proprietà, un ininterrotto attacco sia alla magistratura in generale sia ai singoli magistrati che mettevano a rischio la sua fedina penale e la sua carriera politica.
In realtà l’ascesa al governo di Berlusconi sopraggiunse come un macigno proprio nel momento in cui il potere giudiziario si andava riscattando, con le inchieste sul finanziamento illecito dei partiti, da un’inerzia almeno ventennale nei confronti del potere politico. Da quel momento l’opera di delegittimazione della magistratura non si è mai fermata e prosegue ancora oggi sulla spinta iniziale di Berlusconi, tuttora indagato, al quale si sono aggiunti nel tempo altri esponenti politici dei partiti di destra ed ultimamente anche di “sinistra” come Renzi.
Vero è che durante questo lungo arco di tempo la magistratura si è esposta alle critiche, spesso giustificate, di chi sospettava manovre correntizie volte per lo più a favorire promozioni e trasferimenti negli incarichi più ambìti. Ma sull’argomento un paio di riflessioni possono essere utili. In primo luogo ci si deve chiedere: come può una società che lentamente scivola da decenni verso un diffuso malcostume sia nella vita pubblica che in quella privata non coinvolgere anche qualche magistrato facendo perdere credibilità all’intero sistema giudiziario?
La seconda osservazione riguarda specificamente la tanto criticata presenza delle correnti all’interno degli organi di autogoverno della magistratura; le correnti sono un fenomeno implicito in qualunque consesso decisionale. Diversamente sarebbe impossibile far convergere il consenso verso qualunque decisione da prendere a maggioranza. Vale per i partiti, e nessuno se ne è mai meravigliato (nella DC dorotei, fanfaniani, morotei, nel PSI lombardiani, craxiani ecc.), ma vale anche per una semplice amministrazione condominiale: come si può eleggere un nuovo amministratore senza organizzare il necessario consenso, vale a dire senza creare una corrente per l’occasione? Non sono dunque le correnti in sé che vanno colpite, ma i loro comportamenti fraudolenti o lesivi di diritti. Ed in ogni caso gli abusi contestati agli organi di autogoverno della magistratura non sono quantitativamente paragonabili con quelli commessi da quella stessa classe politica che li tiene nel mirino da un trentennio. In questo raffronto tra politici e magistrati non è superfluo ricordare che il contributo in vite umane pagato da questi ultimi nella lotta alla criminalità e al terrorismo è stato di gran lunga superiore a quello offerto dai primi.
Malgrado ciò si è creato nel Paese un clima di sfiducia, di avversione se non di disistima nei confronti della magistratura, un clima che si è insinuato anche nella recente “riforma Cartabia” la quale, lungi dal risolvere compiutamente i problemi della giustizia stigmatizzati dall’Europa, si limita a ridimensionarne l’autonomia fino al punto da aver provocato uno sciopero dei magistrati.
Mentre andava avanti l’iter parlamentare della riforma, nella quale non mancano, ad avviso di molti magistrati, profili di incostituzionalità, Lega e radicali proponevano sette quesiti referendari, due dei quali bocciati dalla Corte di Cassazione, mentre gli altri cinque saranno oggetto del referendum popolare di cui si diceva innanzi.
Cosa comporterebbe l’approvazione di ciascuno di questi referendum?
Il primo riguarda la cosiddetta “legge Severino”: la sua abrogazione comporterebbe la cancellazione della norma che sancisce l’incandidabilità e la decadenza dei condannati in via definitiva: ciò vuol dire che verrà concesso anche a loro di candidarsi o di continuare il proprio mandato. Eventuali divieti di ricoprire cariche torneranno a essere decisi dal giudice, chiamato a valutare caso per caso, come avveniva prima della “legge Severino”.
Il secondo comporterebbe l’abrogazione della norma che richiede al magistrato che volesse candidarsi al Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) di raccogliere dalle 25 alle 50 firme di adesione. Palesemente mirata a sventare le cordate correntizie, aprirebbe a tutti i magistrati la possibilità di candidarsi: sarà un problema di ciascun candidato procurarsi i voti necessari, cioè organizzarsi la propria personale cordata.
Il terzo, che riguarda la valutazione di professionalità dei magistrati, estenderebbe il potere dei membri laici del CSM (professori universitari e avvocati), attualmente limitati alla sola espressione di un “parere”, fino alla partecipazione effettiva a questa valutazione. Ci si chiede: chi valuta la professionalità degli avvocati e soprattutto chi ne giudica la correttezza e il rispetto dei precetti deontologici?
Il quarto referendum riguarda invece la separazione delle funzioni dei magistrati. Se al referendum vinceranno i “sì”, il magistrato dovrà scegliere all’inizio della carriera se vuole essere pubblico ministero o giudice e non potrà scegliere di cambiare indirizzo (cosa che oggi può avvenire al massimo per quattro volte). Questo è, tra tutti, il referendum più contestato dai magistrati che vi intravedono un impoverimento professionale: fare il giudice inquirente arricchisce l’esperienza del magistrato giudicante e viceversa. Non solo, ma la separazione delle funzioni così come risultante dall’eventuale approvazione del referendum somiglia molto alla separazione delle carriere. Questa separazione, è storicamente provato, tende a sottomettere la magistratura inquirente al potere politico esponendola a condizionamenti e a scelte che potrebbero, al limite, ledere il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Il quinto ed ultimo dei referendum riguarda la carcerazione preventiva. Attualmente le misure cautelari possono essere motivate dal pericolo che la persona indagata sia a rischio di reiterazione del reato, di fuga o di alterazione delle prove a suo carico. Se vincerà il “sì” al referendum, verrà abrogata la motivazione della possibile reiterazione del reato.
Le indicazioni di voto che vengono dagli schieramenti politici sono eloquenti: Forza Italia, Lega, Coraggio Italia, Italia Viva ed anche Azione chiedono al loro elettorato di votare “sì”. Fratelli d’Italia ha una posizione più articolata che dà indicazione per il “no” all’abrogazione della legge Severino ed a quella relativa alla carcerazione preventiva e per il “si” agli altri tre quesiti referendari. Il Movimento 5 Stelle propone invece il “no” su tutti i quesiti, mentre il PD, pur essendosi espresso nella stessa direzione il segretario Enrico Letta, darà invece libertà di voto per assecondare il dissenso interno della quinta colonna renziana, ancora esistente sotto il nome di “Base Riformista”, che intende evidentemente adeguarsi alla linea di Italia Viva. Sulla carta dunque, se si dà un occhio ai sondaggi elettorali, i “sì” dovrebbero sopravanzare i “no” (non si conoscono ancora le indicazioni di Liberi e Uguali, ma sarebbero comunque poco influenti).
L’acredine della destra verso la magistratura è peraltro confermata dal referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, proposto, oltre che da Lega e radicali, dai consigli regionali di Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte, tutte regioni governate dalla destra. Questo referendum, il più micidiale di tutti, proponeva l’abrogazione di alcune norme processuali in tema di responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Scopo finale del quesito era quello di addossare al singolo magistrato l’esborso della somma richiesta a titolo di risarcimento da chi dimostrasse di essere stato danneggiato da un errore giudiziario. In un siffatto scenario quale magistrato non tenterebbe di sottrarsi alla presa in carico di un’inchiesta giudiziaria che coinvolga grandi interessi economici? E se il tentativo andasse a vuoto, è facile immaginare i condizionamenti, anche psicologici, derivanti dall’eventualità di provocare danni ingenti o anche solo cospicui: i magistrati non sono infallibili e gli errori giudiziari sono dietro l’angolo, specialmente nel caso in cui l’inquisito sia molto potente e ben assistito. Questo quesito è stato infatti dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale perché nel suo testo si propone l’introduzione di una disciplina sostanzialmente nuova, il che snatura un referendum che, per definizione, può solo abrogare, in tutto o in parte, norme già esistenti. Sorprende che sul tema della responsabilità civile dei magistrati si insista ciclicamente (già proposero qualcosa di simile i radicali di Pannella nel lontano 1978) senza considerarne i gravissimi risvolti negativi. Le norme vigenti prevedono il risarcimento da parte dello Stato, ferma restando la possibilità di rivalersi in parte sul magistrato incorso nell’errore.
Poiché, com’è noto, i referendum sono abbinati alle elezioni amministrative che riguarderanno circa mille comuni con una mobilitazione potenziale di 9 milioni di elettori, il voto amministrativo potrebbe essere un fattore di trascinamento e permettere di raggiungere il quorum a quelli tanto cari alla destra allargata di cui abbiamo detto. Comunque, rispetto a questa eventualità, non è da escludere che la disaffezione al voto degli elettori, nelle elezioni sia politiche che amministrative, si concretizzi in un numero di voti insufficiente a far passare i referendum. Ce lo auguriamo vivamente.