La guerra in Ucraina ci spinge a riflettere su alcuni aspetti collaterali. Come giudicare, ad esempio, le prese di posizione volte a sostenere gli ucraini che si stanno eroicamente opponendo all’invasione russa? Tutte queste manifestazioni, in essa compresi i numerosi, accorati appelli del Papa, non ci tolgono il dubbio che siano poco o nulla efficaci. Il perché di questo scetticismo è alquanto chiaro: quanti di questi appelli, di questi cortei, di queste ritorsioni provenienti dall’estero giungeranno alle orecchie dei russi superando la rigida censura in atto? Se qualcuno di essi dovesse andare a segno, sarebbe comunque raccolto da una minoranza non sappiamo quanto piccola di dissidenti.
Tra le mosse pro Ucraina adottate qui da noi non condividiamo l’infelice uscita dell’Università Bicocca di prendersela con Dostoevkij, decisione che meriterebbe una reprimenda al Rettore. Soffermiamoci poi sulla decisione del Teatro alla Scala di Milano di annullare il concerto in programma di uno dei più celebri direttori d’orchestra viventi, Valerij Gergiev. Apparentemente sembrerebbe un tantino più sensata rispetto all’iniziativa bicocchiana, anche perché pare che Gergiev, amico personale di Putin, abbia rifiutato di prenderne le distanze in occasione dell’invasione. Il che, per noi filo-ucraini, assume il significato di un gesto a favore degli aggrediti, che ce ne saranno grati, ma quale sarà stata la ricaduta sui russi? È probabile che non ne siano stati neppure informati e che la cancellazione del concerto in Italia sia stata strumentalizzata: Gergiev rimane amico di Putin e dei russi che continueranno ad applaudirlo nei suoi concerti al teatro Mariinskij di Leningrado. Questo per dire che i gesti dimostrativi promossi nei paesi democratici non hanno un grande effetto nei paesi totalitari, dove l’informazione è nelle mani del potere.
Nell’ambito del conflitto in atto ha molto più senso l’abbandono del Teatro Bolshoi da parte della prima ballerina, di nazionalità russa, che ha compiuto un concreto gesto di dissociazione. Ma nel suo paese la verità verrà certamente occultata: si dirà che si è slogata una caviglia o che si è ritirata dall’attività e, col tempo, che è una spia. Ancor più efficace è il coraggioso “passaggio” di Marina Ovsyannikova sugli schermi di Channel One Russia, ricordato nell’articolo di Achille Aveta “Anticonformisti”. L’ardimentoso gesto di dissenso le è costato il temporaneo arresto e il pagamento di una multa, sanzioni leggere volte a dimostrare che il tanto vituperato regime di Putin non è poi così feroce: tanto suggerisce ai russi il delicato momento diplomatico, ma possiamo essere certi che la persecuzione della coraggiosa giornalista non finirà qui.
Il dissenso manifestato da personalità russe molto popolari nel loro paese appare dunque appena un po’ più efficace di ogni altra forma di contestazione. Torna però utile ricordare che agli albori del Nazismo numerosi furono gli scrittori e gli artisti ebrei, famosi in Germania e nell’Austria ormai annessa, che decisero di lasciare quella che ritenevano la loro patria per cultura, lingua ed alcuni anche per religione, in quanto convertiti. Qualche tedesco ne avrà sofferto la perdita ma la maggioranza ormai saldamente antisemita e nazificata ne avrà addirittura avuto piacere ritenendola un’occasione di purificazione della razza ariana. Un po’ di scalpore suscitò semmai l’espatrio di eminenti esponenti non ebrei del mondo artistico, come Thomas Mann e il direttore d’orchestra Erich Kleiber, ma la loro presa di distanze dal nazismo incise, com’era prevedibile, solo sulla classe colta tedesca.
Più che le dissociazioni da un regime hanno peso, ahimè, le mancate dissociazioni. Per i tanti tedeschi amanti della musica constatare che il loro mito, il celeberrimo direttore d’orchestra Wilhelm Furtwangler, continuava a dare i suoi popolarissimi concerti a Berlino significava che il regime era dalla parte giusta e che i tanti artisti transfughi non lo avevano capito. Purtroppo funziona così. Le somme si tirano soltanto a conflitto concluso e da parte dei vincitori gli artisti accusati di collaborazionismo saranno nella peggiore delle ipotesi sospesi per qualche tempo. Furtwangler fu sottoposto a un processo di denazificazione e alla fine degli anni Quaranta tornò a dirigere anche nelle capitali europee degli stati vincitori. Stesso processo toccò ad Herbert Von Karajan la cui adesione al nazismo fu certamente più travagliata. La sua attività direttoriale fu quindi sospesa solo per pochi mesi. Certo, per entrambi, così come per gli artisti in generale, si pensi allo scrittore filo-nazista francese Louis-Ferdinand Céline o al poeta americano favorevole alla “rivoluzione fascista” Ezra Pound, la collocazione della loro attività nella sfera del bello, del sublime, dello spirituale ne sminuisce la responsabilità politica. E infatti i popoli democratici li riabilitano in breve tempo.