“Dica pur chi mal dir vuole, Noi faremo… e voi direte”
Lorenzo de Medici – Canzone della cicala – vv. 31-32
Alfonso d’Aragona, detto il Magnanimo, il 12 giugno 1432 entra a Napoli. Il re assediava la città da molto tempo, però non riusciva a vincere la resistenza delle truppe angioine asserragliate dietro le mura. Il comandante degIi aragonesi, napoletano di nascita e profondo conoscitore della storia patria, ha una geniale idea. Già nel IX secolo le truppe bizantine si trovarono nella stessa situazione di stallo. Risolsero l’impasse penetrando in città attraverso le condotte del vecchio acquedotto romano che portava dietro le mura. Il comandante napoletano, ritrovato il passaggio segreto attraverso l’acquedotto abbandonato, prepara l’incursione. Appena dietro le mura, presso la chiesa di Santa Sofia e la chiesa dei Santi Apostoli, il cunicolo termina in un pozzo. I soldati si arrampicano, probabilmente anche con la complicità del proprietario, tale Cicatiello di professione sarto. Per le truppe del Gran Capitano di Alfonso fu assai facile bloccare e sconfiggere le sbigottite guardie della guarnigione e conquistare la città. Il comandante delle truppe aragonesi protagonista di questo evento è Diomede Carafa.
Costui, primo principe di Maddaloni (Napoli 1406-1487), si può considerare il prototipo del “Signore rinascimentale”. Uomo d’arme e abile condottiero in battaglia (come dimostrato), esperto conoscitore della politica europea e del “gioco di contrappesi” esercitato dal papato e dalle svariate signorie secolari. Grazie alla fama di persona saggia e all’autorevolezza conquistata sul campo di battaglia e nelle stanze del potere, viene più volte chiamato a dirimere questioni di stato. Uomo di lettere, scrive trattati di moralità politica e tattiche militari. Amante delle arti e insigne mecenate, quando decide di ammodernare la dimora avita sulla Via Cumae (attuale via San Biagio dei librai), lo fa con lo scopo di dimostrare, attraverso la magnificenza del suo palazzo, il potere e l’influenza raggiunti alla corte aragonese.
Palazzo Carafa sorge in una delle zone della città più antropizzate. La stessa fabbrica attuale sussiste su di un coacervo di strutture preesistenti che vanno dalla fine del periodo ducale al medioevo. Secondo quanto scritto dal De Dominici, l’autore del palazzo preesistente fu il napoletano Masuccio Primo (1230-1306), che apprese lo stile Gotico Flamboyant dall’architetto provenzale Pierre de Chaule, progettista di Castel Nuovo. Molte infatti erano le analogie costruttive tra la corte interna di Palazzo Carafa (prima del restauro del 1466) e il cortile del Maschio Angioino. Il piano di rinnovo di Diomede è pienamente aderennte al novello stile rinascimentale. Le facciate, rivestite con un bugnato di mattoni in tufo giallo e grigio, sono ispirate all’opus isodomum del maestro dell’architettura romana Vitruvio. La bugna è simile a quella usata nelle facciate di Palazzo Penne e nel campanile della Cappella Pappacoda, ma la scelta della bicromia (tufo giallo e grigio) accentua qui il richiamo all’antichità classica.
Il principe Carafa ha avuto l’occasione di ammirare tante dimore del nuovo stile in Toscana, sicuramente conosce Palazzo Medici Ricciardi a Firenze, opera dell’architetto Michelozzo e residenza del suo amico Lorenzo il Magnifico. Altri elementi tipicamente rinascimentali sono da ricercare nella forma detta “a cassa” dell’edificio (priva di elementi rompi-piano orizzontali), nella cornice orlata del tetto, nella trabeatura delle finestre in marmo del piano nobile, ripresa nel monumentale portale d’accesso, opera attribuita ad Angelo Aniello Fiore (figlio del pittore della corte aragonese Colantonio), portale marmoreo, primo esempio di struttura architravata di stile ionico presente a Napoli. Lo stesso Fiore fu forse il progettista dell’intero restauro del 1466.
Vero vanto del Palazzo fu la collezione di statuaria greco-romana accumulata dal Carafa. Statue, erme, epigrafi, basamenti, elementi di spoglio provenienti dai terreni che il Carafa possiede nei Campi flegrei. Il Celano elenca un busto di Cicerone e le statue di Muzio Scevola, di una Vestale e di Mercurio nell’atrio, varie epigrafi, i busti e teste sulle porte di ogni stanza, oltre ad una testa di Augusto. Una vasta collezione che nel XVI secolo venne stimata per oltre 17.000 ducati (più di 10 milioni di euro attuali), che ornava finestre, logge, scale e apposite nicchie del palazzo. La collezione fu alienata dagli eredi nei secoli e della vasta raccolta restano attualmente pochi pezzi. Permangono le tre statue che ornano il portale: gli imperatori Claudio e Vespasiano posti ai lati di un Ercole nemeo incassato in una nicchia. Sicuramente l’intento decorativo era quello di dare una forte connotazione neopagana al Palazzo. Una colonna ornata da bassorilievi di età classica e sormontata da una scultura equestre di re Ferrante d’Aragona era posta al centro del cortile. Fu fatta erigere con l’intento di celebrare la visita del sovrano alla dimora del suo precettore Diomede. Per lasciare ammirare questo monumento il portone del palazzo restava sempre aperto su ordine del propietario.
Il portone in legno, recentemente restaurato, fa riaffiorare l’originaria ricchezza di particolari decorativi delle dodici formelle in essenza di leccio e delle strutture portanti in rovere e castagno. Sono anche state recuperate tracce superstiti del colore originario, consentendo di apprezzare nuovamente il porpora delle fasce degli stemmi e altri dettagli venuti alla luce con la pulizia.
Altra famosissima statua esposta nella corte era la testa di un cavallo monumentale in bronzo. Unico pezzo fuso di una statua equestre di Alfonso d’Aragona commissionata dal figlio Ferrante a Donatello e mai terminata per la sopraggiunta morte dell’artista nel 1466. La testa equina fu allora acquistata da Lorenzo il Magnifico per farne dono al suo amico napoletato Diomede Carafa. Manufatto che divenne il simbolo del palazzo stesso, tanto da essere indicato nelle guide sette-ottocentesche come il “Palazzo della testa di cavallo”.
A questa statua sono legate tante leggende. In passato fu scambiata, per equivoco, con uno dei quattro “manufatti magici”, che la tradizione popolare attribuiva all’opera del mago Virgilio. Il mito del poeta mantovano si accrebbe enormemente dopo la morte. Egli fu amato nei secoli seguenti dal popolo. Nel medioevo fu addirittura considerato come una divinità dai napoletani, che vedevano in lui il protettore della città. Da uno scritto di Corrado di Querfurt (1160-1202), cancelliere di Arrigo VI e suo rappresentante a Napoli e in Sicilia, apprendiamo che Virgilio aveva costruito, secondo quanto sostenevano i napoletani, speciali talismani per proteggere la città: “L’Ovo in gabbia ” per difenderla dai terremoti e maremoti; “l’arciere d’argento” un automa che scagliava frecce nel Vesuvio per bloccarne le eruzioni; “la mosca d’oro” posta nell’acquedotto per la salubrità delle acque; “il cavallo di bronzo” per curare le malattie degli animali di fatica. Adesso nel cortile del palazzo resta una copia in terracotta ottocentesca, voluta da Gioacchino Murat, che fece trasferire l’originale bronzeo nel palazzo che ospita le sale dell’attuale MANN.
Il principe Diomede Carafa non ebbe prole, pertanto nei secoli le sue proprietà furono rimaneggiate e il suo Palazzo cambiò diversi padroni fino alla parcellizzazione del secolo scorso. Sicuramente un segno dei tempi che non sminuisce minimamente i suoi ideali di munifica grandezza.