“‘A morte nun tene creanza” recita un antico proverbio napoletano. La morte non è educata perché non chiede il permesso quando ruba la vita. La morte non accetta aggettivi, non ne ha bisogno. Non c’è barriera, porta, confine che riesca a tenerla lontana. Da settimane in Ucraina la morte arriva dal cielo con le bombe, da terra con le mine e con i proiettili. Una, cento, mille vittime.
Mai come quando si discute di vita e di morte, bisogna riferirsi al singolo, alla persona la cui vita è straziata e soppressa, al dolore di quel singolo padre o madre, figlio o fratello. La morte è un sostantivo singolare, non è collettiva, la morte è di ognuno.
Guerra e morte sono assimilabili, sinonimi concettuali più che linguistici. La guerra è soppressione dell’altro, sconfitta e annientamento. Che senso ha allora misurare il nostro inorridimento a seconda del numero delle vittime? Quando si ammazza nelle strade delle nostre città, se a morire è anche una sola persona si urla contro la barbarie. Se poi a morire sono due o più persone si alza ancor di più l’attenzione e definiamo quelle storie come stragi. La nostra indignazione aumenta in noi che abbiamo il privilegio di vivere in società moderne, democratiche e ricche quando a provocare la morte di un cittadino è un componente di quelle organizzazioni che abbiamo inventato per difenderci dalla nostra stupidità e cattiveria, da quella dei nostri simili che vivono nella porta a fianco. Stefano Cucchi ucciso di botte da due carabinieri. George Floyd strozzato dal ginocchio di un poliziotto. Morti ancor più assurde e inammissibili per le nostre coscienze. Perché allora consideriamo diversa la vita degli ucraini e dei russi che stanno morendo in guerra? La loro è una morte legittima solo perché a portarla sono uomini in divisa o volontari che combattono contro di loro? Che importanza ha se siano 1, 100, 1000? La morte, la guerra è terribile solo se il numero delle vittime è elevato o anche se provoca la morte di un unico civile, bambino, giovane o vecchio, uomo o donna, o di un soldato, dieci soldati, di qualunque grado e da qualunque parte spari?
Crimini di guerra si urla. Ma la guerra è un crimine. Andrebbe processato un qualunque capo di stato o di governo che ordinasse un attacco, che provocasse con qualsiasi mezzo l’inizio di una guerra, piccola o grande che sia. Orrore nell’orrore la guerra si combattute con le armi ma anche con le immagini, le parole, la propaganda. Da una parte e dall’altra si mostrano orrori per creare consenso, per giustificare o autoassolversi dai crimini commessi, che sono sempre degli altri. In questo gioco tutto propagandistico gli eserciti in campo sono reali e immaginati.
Nelle democrazie l’arma preferita è l’opinione pubblica che da strumento di vigilanza e controllo delle azioni dei governanti viene trasformata in arma da usare contro gli avversari. Si gioca a riprodurre gli schieramenti come sul terreno dove infuria la battaglia. Mentre in Ucraina si contano i morti, nelle democrazie occidentali si contano le opinioni. I generali ordinano i sondaggi, i capitani li organizzano, la truppa li diffonde. Dopo tanti giorni di bombardamenti e di cannonate gli eserciti misurano le loro forze, i danni subiti, si riposizionano, correggono tattiche e strategie.
Nelle chiacchiere si fa lo stesso. Putin sta commettendo crimini di guerra. No, Putin ha iniziato una guerra e per questo è un criminale, andrebbe scritto. Voler far credere all’opinione pubblica che esiste la possibilità di fare la guerra come se si trattasse di un torneo cavalleresco è una menzogna colossale. La guerra non ha regole se non quella di sopraffare. Civili uccisi. Ma nella resistenza di un paese i civili sono chiamati a combattere, li stiamo armando per farlo. Li stiamo mandando a morire e muoiono, civili in battaglia come soldati. E come i “Soldati” di Ungaretti, stanno … come d’autunno/ sugli alberi/ le foglie.
Ottimo articolo lo condivido nella sua complessità. “La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire.” Giusto. Però, scrivere “Da una parte e dall’altra si mostrano orrori per creare consenso, per giustificare o autoassolversi dai crimini commessi, che sono sempre degli altri”, è lo stesso concetto che un certo Panza, in vecchiaia, utilizzo per mettere sullo stesso piano Partigiani e Nazisti, civili che difendevano la propria casa con traditori fascisti al servizio degli occupanti. Su questa parte non sono d’accordo con Lei, non lo ero con Panza. Nelle guerre, anche quelle civili, chi difende la propria casa, i propri cari, anche se commette atrocità non sta mai sullo stesso piano dell’invasore.