Uno dei problemi secondari ma non marginali dell’invecchiamento di massa della popolazione è la persistenza di idee invecchiate rispetto a problemi nuovi. Questa persistenza è visibile dappertutto ma oggi è drammatica soprattutto per la politica. Buona parte della vita politica italiana – e soprattutto di quella della “sinistra” che è appunto mediamente formata o quantomeno diretta da persone che hanno più di cinquant’anni se non sessanta – è determinata dal fatto che queste persone hanno formato sia i loro ideali che i loro slogan in epoche differenti da questa. E purtroppo, quando si crea una divaricazione con la realtà, preferiscono non vedere. Anzi giungono al punto di preferire mantenere i vecchi slogan e buttare a mare quello che di vivo c’era nei loro ideali, perché così vuole quello che gli psicologi chiamano il “bias dell’aggiustamento” (e il vecchio Pareto chiamava la “persistenza degli aggregati”). Questa preferenza per i vecchi slogan anche quando svolgono di fatto una funzione esattamente inversa a quella che avevano in passato è stata già visibile nel caso dell’Afghanistan. Si poteva mai chiedere a persone che hanno passato parte della loro esistenza a chiedere “fuori gli Americani” da qualsiasi terra di organizzare manifestazioni perché gli Americani restassero in qualche posto? Eppure gli ideali egualitari, laici e femministi avrebbero imposto manifestazioni di piazza guidate dallo slogan “Americani, restate in Afghanistan” o perfino “Il nostro glorioso esercito italiano resti in Afghanistan”.
Questa divaricazione è poi diventata drammatica nel caso della relazione con la Russia di Putin. La percezione della Russia di Putin come prosecuzione dell’Unione Sovietica determina le reazioni di molti, persino quando non siano schierati dalla parte della Federazione Russa. Si continua a pensare che l’esigenza fondamentale della Russia sia evitare l’accerchiamento e si imputa alla Nato la colpa di aver accerchiato. Questo riflesso automatico non tiene conto della profondissima differenza di obiettivi e di finalità che ha l’impero di Putin rispetto all’Unione Sovietica. L’Unione Sovietica costituiva un regime fondato su una promessa di benessere, sulla decisione di puntare sull’industrializzazione per realizzarlo, sull’illusione che la pianificazione potesse essere una via all’industrializzazione. La Federazione Russa di Putin non è un regime che punta sull’industrializzazione, ma sulla massimizzazione della propria quota di dominio sulle risorse minerarie e sulla vendita di materie prime. Se dovessimo definire il tipo di regime che Putin incarna dovremmo parlare di un “impero minerario” o (con Gore Vidal) di “junta petrolera”, da mettere in analogia con quello di Bashar al-Assad in Siria, con il chavismo in Venezuela, con molti regimi arabi, con il khomeinismo in Iran. Anche rispetto alla Cina, la strategia putiniana è molto diversa da quella cinese – più fedele alle classiche promesse dei regimi comunisti e perciò più visibilmente totalitaria – anche se sembra avere trovato punti di convergenza con la Cina, non sappiamo quanto durevoli e vantaggiosi per Putin.
Un impero minerario è caratterizzato dai seguenti aspetti:
- Un impero minerario ha bisogno di un ferreo controllo sulla parte del territorio che funge da risorsa, che deve essere sottratto a ogni controllo democratico e sfruttato in modo patrimonialistico dall’elite militare e finanziaria che lo controlla.
- Un impero minerario può essere invece del tutto indifferente a quello che accade alla restante popolazione e al territorio non sfruttabile. Certo, la popolazione può essere comprata con i proventi forniti dalla vendita delle risorse minerarie, così da trasformarla in una sorta di presepe vivente che dice sempre sì ai desideri del sovrano elargitore: è quanto ha tentato il chavismo ai suoi inizi, ha praticato con un certo successo l’Iran, praticano tuttora molte nazioni arabe, pratica non senza successo Putin riempiendo gli stadi. Ma, se decide di ribellarsi, la popolazione può essere sterminata: si tratta in fondo di mosche fastidiose che occupano terre che potrebbero essere sfruttate in altro modo. È la via praticata in modo palese da Bashar al-Assad.
- Un impero minerario può accrescere i propri profitti solo massimizzando la quota di territori che controlla e di risorse minerarie che vi estrae. Infatti, in questo modo può differenziare l’offerta, controllare in larga misura i prezzi, scegliere che cosa offrire e quando, evitare insomma i rischi di non avere merce da vendere o di doverla vendere a prezzi troppo bassi.
- Infine, l’Impero minerario – e questo è il caso di Putin – può usare i propri profitti per creare campagne di stampa e corrompere uomini politici di altre nazioni, in modo da garantire la crescente dipendenza delle altre nazioni dai prodotti minerari che l’Impero vende. Se, per esempio, produci soprattutto gas, farai grandi campagne per spiegare che il carbone puzza, il petrolio si sta esaurendo, il nucleare è pericoloso, l’eolico è brutto a vedersi e così via, in modo da poter tenere sotto ricatto i clienti. Da questo punto di vista, la definizione di Putin come pusher – mercante, ma anche propagandista di droga – data da un deputato inglese è del tutto esatta.
L’Impero minerario ha dunque mire espansive, ma esse sono molto diverse da quelle degli Imperi classici. Per tornare all’Unione Sovietica, anch’essa nascondeva contro la proclamata paura dell’“accerchiamento capitalistico” una tendenza espansionistica. Ma l’Unione Sovietica dava per scontato di dover inglobare intere nazioni. I sovietici erano sicuramente interessati all’uranio cecoslovacco, ma credevano di poterlo sfruttare solo a condizione di inglobare l’intera Cecoslovacchia. Lo Stato conquistato doveva restare una nazione, anche se totalmente sottomessa. Per contro, un Impero minerario procede per scissioni: una volta occupata l’area interessante, il resto della nazione occupata può morire, disintegrarsi, scindersi in tribù guerrigliere, emigrare in massa, non importa nulla. Siria docet.
Se le cose stanno così, noi stiamo affrontando male la crisi ucraina perché molte idee dei vecchi tempi ci sono rimaste addosso. Ovviamente, i più attardati sono quelli che continuano a proiettare su Putin l’immagine positiva – già sbagliata – che avevano dell’Unione Sovietica e continuano a vederlo come l’esponente di una nazione sostanzialmente pacifica turbata dagli “imperialisti americani”. Non vale proprio la pena di parlarne, sono come persone che sognano. Il loro errore è analogo a quello di chi ritenesse che Toto Reina sia la reincarnazione degli ideali dei Vespri siciliani: un anacronismo romantico ma anche una legittimazione assurda del potere bruto.
Ma anche altri, meno folli, continuano a pensare che si debba trovare un accordo tra lo Stato ucraino e la Federazione Russa. Non potrebbe l’Ucraina dichiararsi neutrale? Già fatto, ma Putin non si ferma. Non vuole la pace, vuole le terre che gli servono per espandere l’Impero minerario. Non sappiamo se egli si accontenterà del mare di Azov – cioè del ricongiungimento tra il Donbass e la Crimea – o gli serva anche Odessa. Né lo sapremo facilmente. Data la totale indifferenza alla vita umana che è tipica degli Imperi minerari, Putin può accontentarsi di occupare quei territori, cacciarne tutti gli Ucraini, poi chiedere la pace. Ma può anche bombardare tutta l’Ucraina, ridurla a condizioni di impossibilità di sopravvivere e poi “accontentarsi” della sola parte orientale, bontà sua. Quel che sappiamo è che garantire ai territori che occupa quel minimo di sopravvivenza nazionale che i sovietici – con tutta la malvagità e la brutalità delle loro occupazioni – hanno pur dovuto garantire all’Europa orientale, non è nei suoi obiettivi. Di qui deriva quella strana forma di turismo vandalico che sta avendo l’occupazione dell’Ucraina, finalizzata alla mera distruzione più che all’asservimento.
Infine, e purtroppo, non è da sperare che la brutalità dell’occupazione scuota i russi e li spinga a contestare in massa il loro governo. Non perché la grande nazione di Herzen, Turgheniev, Tolstoi e Sacharov non abbia dissenzienti al suo interno. Ne ha tantissimi. Ma, diversamente dagli Imperi classici, gli Imperi minerari non lasciano alla popolazione alcuna leva che possa rendere efficace il dissenso. L’esercito non è composto da reclute ma da mercenari. Gli operai estrattori sono sicuramente sotto controllo: non faranno scioperi letali per il regime come fecero i minatori sovietici nelle ultime fasi del regime di Gorbaciov. La polizia e l’amministrazione sono sicuramente con Putin. Insomma, un impero minerario, in quanto regime patrimoniale prima che politico, non vive delle tasse pagate dai cittadini e dunque può essere del tutto impermeabile alle loro opinioni. Il regime sovietico doveva neutralizzare il dissenso con massicce e costanti campagne ideologiche e poliziesche, come tuttora fa la Cina. A un regime minerario, come a un regime mafioso, basta un omicidio ogni tanto per tenere sotto controllo i sudditi inermi.
Se quest’analisi è giusta, abbiamo poche strade. La terza guerra mondiale certamente non la vogliamo e l’invio di eserciti in Ucraina potrebbe essere l’inizio di essa. La guerra per procura con l’invio di armi e di volontari potrebbe continuare a devastare l’Ucraina senza ledere l’unica cosa a cui Putin tenga, cioè il controllo sui pochi territori che veramente gli interessano. Possiamo certamente ledere gli interessi dell’Impero minerario con la durissima scelta di non comprare nulla da esso, ma qualche altro cliente Putin può senz’altro trovarlo. Vi è però un punto su cui possiamo interrogarci. Il controllo sul Mar Nero è evidentemente collegato alla strategia di sfruttamento intensivo delle risorse del Mediterraneo orientale che la Russia ha intrapreso da tempo. Dobbiamo lasciare che questa strategia prosegua? Non possiamo invece contrastarla o addirittura rovesciarla? Tutto parte dalla Siria e tutto ritorna alla Siria: dobbiamo proprio lasciare che essa sia una parte di Russia? Non possiamo discutere con gli altri attori del conflitto – Turchi, Israeliani – e tentare di mettere fuori i Russi? Forse l’aiuto maggiore che possiamo dare agli Ucraini è aprire un secondo fronte e il secondo fronte può essere di nuovo la Siria.
Bellissimo, intelligente e documentato pezzo che leggo in ritardo ma che condivido appieno.