Un monito dal passato

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Napoli, portale dell’ospedale di Santa Maria della Pace (Fonte: Wikipedia)

Le liti nei condomini in Italia sono una costante. Secondo una stima del 2018 (fatta dall’osservatorio italiano di statistica) i casi di liti derivanti dalla convivenza condominiale sono alla base di più di due milioni di cause civili pendenti. Il ben poco onorevole primato spetta alla Campania, con oltre centomila processi non ancora passati in giudicato. Non è certo un fenomeno recente, se si pensa al Placido Cassinese, scritto nell’833, (uno dei primi documenti in lingua italiana) redatto proprio per dirimere una lite di confini. Ebbene, proprio una controversia del passato sarà il tema di quest’articolo.

Ci troviamo a Napoli, per la precisione in via San Nicola dei Caserti, un angusto vicolo che collega Forcella a via dei Tribunali. All’imbocco della strada, proprio sopra la tabella viaria, possiamo ammirare un’antica lapide che recita: “Dio m’arrassa da invidia canina, da mali vicini et da bugia di uomo dabene” (Dio allontani da me l’invidia rabbiosa, i cattivi vicini e le calunnie dei bennati). L’incisione marmorea scampò alla furia del piccone del Risanamento cittadino grazie all’interessamento del filosofo Benedetto Croce. La targa venne inserita nel testo del pescarese “Storie e leggende Napoletane” non solo per puro amore filologico o curiosità intellettuale ma soprattutto per il messaggio etico e morale della vicenda che diede origine all’invocazione incisa nella pietra.

Altro riferimento letterario, più esaustivo, è da ricercare nel testo dell’architetto e storiografo Giovanni Garruccio “Antichità di Napoli e suoi contorni” del 1850. Questi i fatti. Agli inizi del Seicento un giovane viveva in dei locali terranei di sua proprietà lungo via San Nicola dei Caserti. Questi era unico figlio di un calzolaio arricchito che, volendo elevare la sua condizione sociale, aveva preteso che il suo rampollo studiasse lettere ed imparasse a suonare il violino. Il giovane, di indole allegra e rispettosa, aveva accontentato il padre studiando e suonando, ma aveva comunque intrapreso il mestiere di “scarparo”. Morto il genitore, pur entrando in possesso di una cospicua eredità, volle continuare a fare il suo amato lavoro. Le sue giornate trascorrevano allegre tra le scarpe da riparare e le esercitazioni al violino. Il calzolaio musicista divenne un’attrazione e di conseguenza gli affari andarono a gonfie vele. La ricca clientela apprezzava, oltre alla sua perizia di artigiano, l’abilità trasversale di musicista. Un antico detto napoletano dice: “tutt’ vonn’ c’a Cjorta aonna, ma no’ int’ a casa ‘e llate” (tutti vogliono che la Fortuna aumenti come le onde del mare, ma non per gli altri). Successe, infatti, che un nobiluomo suo vicino, vecchio, povero e rancoroso, iniziasse a lamentarsi per i rumori molesti (sonate o martellate) che provenivano dalla bottega sottostante. Un inciso: lamentarsi per dei rumori fastidiosi, nella Napoli di allora, sembrerebbe alquanto pretestuoso. Leggendo le cronache contemporanee, o pur solo osservando “le sette opere di misericordia” (dipinte da Caravaggio pochi metri più avanti dal luogo del racconto e che ha come ambientazione proprio un vicolo della città), si evince invece che la maggior parte delle attività si svolgevano sulla pubblica via. Forse quello che irritava il vecchio veramente erano la ricchezza ma soprattutto la gioventù del calzolaio. Visto che le lagnanze non sortirono alcun effetto, il nobiluomo aspettò l’occasione propizia per vendicarsi del calzolaio. Questa si presentò puntuale. Una mattina fu ritrovato, davanti alla bottega del calzolaio, il cadavere di un accoltellato. Le indagini svolte dagli sbirri approdarono ad un nulla di fatto. Il nobiluomo allora indossò il suo miglior vestito e si recò al vicino Tribunale di Giustizia. Lì raccontò al balivo che autore dell’omicidio era il calzolaio musicista. Inventò anche il movente: debiti di gioco. L’accusa infondata di una persona dabbene bastò per fare condannare a morte un innocente. Gli ultimi desideri del morituro furono esauditi. Tutte le sue ingenti sostanze furono donate al contiguo Ospedale di Santa Maria della Pace. I frati Ospedalieri di San Giovanni si impegnarono a fare scolpire la lapide di cui trattiamo. Una clausola faceva decadere il lascito: se il cartiglio fosse stato rimosso, tutti i beni sarebbero passati automaticamente all’Ospedale degli Incurabili di Santa Maria del Popolo.

Anche se quella che oggi ammiriamo è una copia ottocentesca (l’originale si può ammirare nell’androne dell’ex Ospedale ora sede della V municipalità cittadina), il messaggio inciso resta forte. Un monito dal passato che arriva potente al nostro sguardo, se per un attimo abbiamo la consapevolezza di alzare gli occhi dal telefonino.

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