La Scuola di Resina

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Il mercato di Resina con la Basilica di Santa Maria a Pugliano sullo sfondo (Fonte: Wikimedia Commons)

Nel panorama artistico europeo della ottocentesca pittura di paesaggio poco nota è la “Scuola di Resina”. Era una comunità eterogenea di artisti lontani sia dall’ambiente accademico (dominato dal classicismo di Morelli e Palizzi), sia dagli imperanti stilemi post-romantici della pittura praticata dagli allievi di Giacinto Gigante. Si esprimeva attraverso un linguaggio figurativo rinnovato dalle urgenze veriste dei racconti di Giovanni Verga, impegnato a raccontare la realtà, raffigurandola in maniera oggettiva, senza fronzoli né orpelli di sorta.

Siamo a Napoli nel periodo post unitario e, soprattutto tra i seguaci delle idee mazziniane, serpeggia il malcontento per aver scambiato “una tirannide con un’altra”: tradita l’idea risorgimentale di «Costituire … l’Italia in Nazione Una, Indipendente, Libera, Repubblicana» (Giuseppe Mazzini); il sogno repubblicano svanito per sempre. Dall’incontro di un reduce fiorentino della II guerra d’indipendenza, Adriano Cecioni (Firenze, 1836–1886), del figlio di un esule pugliese morto suicida dopo essere stato detenuto nelle carceri borboniche, Giuseppe De Nittis (Barletta, 1846 – Saint-Germain-en-Laye, 1884), di Federico Rossano (Napoli, 1835-1912), figlio di un generale napoleonico morto nella campagna di Russia, con Marco De Gregorio (Resìna, 1829–1876), che aveva lasciato gli studi accademici in contrasto con le ingerenze politiche nell’ambiente artistico, per poi ritirarsi in una casetta nel bosco della Reggia di Portici, nasce una miscela artistica esplosiva. Diverse esperienze artistiche e umane confluiscono nella tranquilla cittadina di Resina (attuale Ercolano). Una comunità di pittori che, facendo colletta col poco denaro posseduto, s’imbarcava in spedizioni lungo tutta la costa napoletana, per ritrarre “en plein air”.

L’osservazione diretta diventa l’unico riferimento da interpretare per mezzo della sensibilità dei singoli: il cielo, il mare, i paesaggi dipinti secondo una resa dettagliata e netta del particolare, senza sacrificare l’impatto cromatico articolato secondo la luce. Lontani da ogni storicismo o riferimento letterario, da Cecioni appresero “l’uso della macchia”, della pennellata veloce, non meditata, che crea un’atmosfera vibrante e, nello stesso tempo, “moderna”. Fu Domenico Morelli a definire, in maniera dispregiativa, la comunità “repubblica di Portici” ed anche “scuola di Resina” in riferimento al mercato dei cenci usati che si teneva nel paese sin dall’inizio del secolo precedente.

Anche se la comune durò solo pochi anni (dal 1863 al 1867), ebbe un grande impatto sulle nuove leve di pittori. Francesco Lojacono, Alceste Campriani, lo scultore Raffaele Belliazzi, Enrico Gaeta, Edoardo Dalbono e il pittore e letterato Francesco Netti solo per citarne alcuni. Il geniale De Nittis partì, accompagnato da Cecioni, verso Firenze, dove confluirono entrambi nel nascente movimento artistico dei Macchiaioli (teorizzato dallo stesso Cecioni e dal critico letterario Diego Martelli). Anche qui De Nittis si fermerà per poco, partendo alla volta di Parigi. Nella Ville Lumière conosce il mercante d’arte, Paul Durand-Ruel, nonché il fotografo Felix Nadar. Lo stesso che il 15 aprile 1874 aprì le porte del suo studio, al 35 di Boulevard des Capucines, inaugurando la mostra di un gruppo di giovani, riuniti sotto il nome di “Société anonyme des artistes peintres, sculpteurs, graveurs”, pittori come Manet, Renoir, Monet, Cézanne, definiti sprezzantemente dalla critica Impressionisti. Anche il nostro De Nittis era presente all’evento con 5 tele, una delle quali intitolata “campagna nei pressi del Vesuvio” in omaggio agli amici della Scuola di Resina.

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