L’inganno delle certezze

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L’espressione “homo sapiens”, col senno di poi delle nuove conoscenze, si è rivelata sbagliata. Cosa c’è di sapiens in un software mentale scadente, soggetto a ogni sorta di fallacia percettiva dalle imprevedibili conseguenze ma dotato di quella creatività che gli ha consentito di accedere a un progresso mai vissuto prima, tecnologico e civile? A parte questo inaspettato e fortunato effetto collaterale dell’evoluzione umana (“la creatività esige il coraggio di rinunciare alle certezze”, diceva Erich Fromm), gli esseri umani sono fallibili, indolenti, avidi e deboli, soggetti ai capricci dell’umore del momento.

Gli errori della percezione del rischio, delle scelte o dei giudizi sono prevalentemente influenzati dal “bias della disponibilità”, una condizione in cui il cervello vede in maniera ingigantita e distorta un fatto ricorrente carico di intensità emozionale. Infatti si è visto che nel periodo successivo a una calamità naturale, quale può essere un’alluvione o una esondazione, che ha prodotto danni ambientali e di cui hanno dato ampio spazio i giornali e le TV, la gente è più disposta a sottoscrivere polizze assicurative per i danni alla propria abitazione, isola la caldaia e fa scorta di alimenti. Dopo un po’ di tempo però se ne dimentica perché se ne parla di meno.

In uno studio condotto da tre ricercatori psicocognitivi americani si chiedeva ai volontari di scegliere tra quattro probabilità di morte (il diabete, l’asma, l’ictus e gli incidenti) quale fosse la più frequente. L’80% indicava la morte per incidente, mentre in realtà gli ictus provocano quasi il doppio di morti e invalidità di tutti gli incidenti messi insieme. La morte per incidente era ritenuta oltre 300 volte più probabile della morte per diabete, mentre il vero rapporto è di 1 a 4.

I giornali e le TV non si limitano a dare le notizie e commentarle, ma le scelgono secondo un criterio puramente economico (le copie, l’ascolto) assecondando in questo l’idea che la realtà non è quella che vediamo ma quella che percepiamo attraverso i filtri dei nostri neuroni. Le rare volte in cui, per puro caso, la realtà esterna coincide con quella interna nasce un’insolita forma di disagio da cui non vediamo l’ora di uscire, come quello creato dall’attuale pandemia del covid-19: il carico emozionale della diffusione della malattia e il numero di morti ci rende consapevoli del pericolo che corriamo. La realtà di questa percezione coincide e trova finalmente un’eco nell’informazione martellante dei media, ma se un sapiens dal quale ci separano appena 200.000 anni (su 6 milioni di evoluzione del genere umano) si fosse concentrato solo su un pericolo imminente amplificato e sperimentato a più riprese (per esempio, una pianta velenosa o un fulmine durante un temporale), avrebbe abbassato la guardia su altri pericoli (esempio, un animale feroce pronto a divorarlo). Così noi moderni abbiamo bisogno e ricerchiamo inconsciamente più opzioni che ci diano più sicurezza nell’esprimere un giudizio o nel fare una scelta. Ecco perché i giornali e le TV per un istinto di conservazione, insieme alle immancabili e giuste notizie sulla pandemia, stanno gradualmente dando sempre più spazio a fatti che in altri tempi avrebbero meritato un trafiletto in quinta pagina.

Strettamente legata al “bias della disponibilità” è un’altra fallacia cognitiva, “l’euristica dell’affetto”. Un “bias” in cui, secondo il neuroscienziato Damasio, è la nostra emozione del momento a scegliere e decidere. Quando ad esempio siamo ben disposti verso una tecnologia (ad esempio, quella automobilistica o quella degli OGM), riusciamo a vederne solo i possibili benefici e pochi rischi. Purtroppo è quello che sta accadendo con i no-vax, un popolo che non si è vaccinato per paura, non per ignoranza come si vuol far credere. Si è no-vax per paura, perché il “bias della disponibilità” gli fa vedere e temere (giustamente) un pericolo imminente, che bisogna evitare, ma lo fa nel modo più sbagliato col negarlo ed esorcizzarlo, aggredendo chi non la pensa come lui. E per giustificare la sua paura, accusa le lobby dei farmaci o l’attentato alla sua libertà. L’euristica dell’affetto poi fai il resto nel distorcerne il giudizio e la decisione definitiva: la paura come autodifesa lo convince che non vaccinarsi è la cosa giusta da fare… E gli altri allora? Sono tutti impavidamente razionali? No! Sono semplicemente persone, la maggioranza, che alla paura fa seguire il sano dubbio che nasce dall’esperienza (ancora la ricorrente capacità di dubitare delle certezze, che ci ha resi umani e ha spinto il progresso!). Uno sparo improvviso può evocare un pericolo imminente come un attentato, ma anche l’inizio di una corsa campestre (dipende dal contesto) o dei festeggiamenti. Allora perché il dubbio non nasce anche nei no-vax? Forse perché ognuno di noi nasce con una tendenza e passa la vita oscillando fra i suoi due estremi, un “daimon” che lo scrittore Hillman ha così ben descritto nel suo libro “Il codice dell’anima”. Una vocazione, un carattere che ci fa sentire e agire in un modo piuttosto che in un altro a dispetto di ogni argomentazione razionale opposta. Io, ad esempio, ho una inspiegabile paura dell’aereo, ma guido tranquillamente in autostrada, pur sapendo che è molto più rischioso. E da tempo ho abbandonato i ridicoli tentativi di razionalizzare questo limite moderno. Così un no-vax, dall’alto di una certezza che gli viene da sensazioni, credulità, umori ispirati dalla paura, parla di siero sperimentale, virus inesistente o similinfluenzale, effetti collaterali a lungo termine con alterazione del DNA (?) etc etc. La sua paura, ingigantita dal “bias della disponibilità”, dall’“euristica dell’affetto” e dal suo “daimon”, lo trasforma in una mina vagante ancor più pericolosa (per sé e per gli altri) se sostenuto ed eccitato dagli irresponsabili proclami di pseudointellettuali in disarmo. Perciò supporre, sbagliando, che un rischio sia calcolabile è un’altra illusione della nostra propensione alla ricerca di certezze. Come l’illusione del tacchino che, abituato dal contadino ad essere nutrito per un anno intero, quando questa certezza raggiunge il massimo radicamento, in America nel giorno del ringraziamento diviene lui il cibo.

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