Che la città di Napoli abbia un rapporto privilegiato con il Natale è un dato di fatto. La particolarità del centro storico trasformato in un “parco a tema” dell’artigianato presepiale esercita grande fascino sui turisti, contribuendo ad accreditarlo come meta internazionale per i weekend delle festività. Vocianti fiumane di persone invadono i cardini della città greco-romana con la speranza di ritornare bambini osservando luci e statuine.
Lontano dalle resse, nella quiete certosina del Museo di San Martino è possibile ammirare, tra le altre, una sala dedicata alla rappresentazione figurativa della Natività di ben altro spessore. Nelle cucine dell’ex convento una raffinata esposizione permanente ricostruisce, in un percorso cronologico che va dal XIV al XX secolo, l’arte presepiale all’ombra del Vesuvio. Le 14 statue di una Natività, in legno policromo, commissionate da Ferrante I d’Aragona ai fratelli Alemanno, del 1478 per la chiesa di San Giovanni a Carbonara, il presepe della chiesa di San Giuseppe dei Falegnami del 1624, gli oltre 800 pezzi della raccolta ottocentesca Cuciniello solo per citarne alcuni. L’opera di maggior pregio (purtroppo sconosciuta ai più) è la cosiddetta “Vergine puerpera” donata, nel primo ventennio del Trecento, al convento napoletano di Santa Chiara dalla regina Sancha de Majorca, moglie di Roberto d’Angiò. Sancha, che non riuscì mai ad essere madre, aveva grande devozione per la Madonna del parto e per le madri napoletane sventurate. Infatti fu lei la fondatrice del primo orfanotrofio d’Europa. Nel maggio 1343 finanziò personalmente la costruzione di quella che diverrà la Real Casa dell’Annunziata.
La raffigurazione della Madonna dopo il parto, distesa sul letto, col volto affaticato è di origine mediorientale, precisamente siriaca. Illustrata come nei vangeli apocrifi del V secolo (proto vangelo di Giacomo, pseudo Matteo), la scena prevedeva sicuramente altre figure poi disperse nei secoli. Questo lo si può evincere osservando i tasselli e i fori lungo tutta la trasversale della statua lignea. Questa Maria dal volto stanco ma felice, dalle linee morbide, diafane, quasi idealizzate, dal panneggio del letto poco accentuato è molto distante dal linguaggio figurativo imperante nella Napoli angioina: si pensi alle opere coeve dello scultore di corte Tino da Camaino, dal grande effetto plastico e volumetrico.
La cromia delle vesti e della coltre della Madonna puerpera è invece affine ai motivi decorativi tipici del Gothique Flamboyant (termine con cui si definisce il tardo gotico europeo) della statuaria francese o della miniatura occitana. Tanto simile alla Vergine letteraria e coeva del XXXIII cantico del Paradiso di Dante: “Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura. Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore.”
Agli inizi dell’Ottocento il duca di Maddaloni provò a fare una ricostruzione iconografica basandosi sul disegno di una vetrata, di identica raffigurazione, presente nel convento medievale di Chartrés in Provenza. In un locale del convento delle clarisse napoletane ricostruì una grotta. All’interno vi pose la Vergine puerpera, il Bambinello nella mangiatoia con un bue e un asino ai lati, san Giuseppe poco distante dalla scena. Vicino al letto invece due levatrici di cui una si chiamava Salomè, protagonista del primo miracolo di Gesù (Cfr proto vangelo di Giacomo). Tale donna dubitò del parto verginale di Maria e provò a toccarle il ventre. La mano avvicinatasi prese fuoco all’istante. Maria per nulla offesa, le permise di prendere in braccio il bambino Gesù che subito risanò la mano della dubbiosa Salomè.
Seguendo il percorso museale notiamo come con l’andare dei secoli il modo di raffigurare la Natività mutò radicalmente. Le dottrine ecclesiastiche, ritenendo la nascita di Gesù sovrannaturale, negarono la sofferenza o il patimento di Maria nel metterlo al mondo. La Theotókos (generatrice di Dio) da protagonista della scena divenne semplice spettatrice adorante, dando forse il la a quel velato senso di misoginia che tornò prepotentemente in auge con la controriforma del XVI secolo.