L’accordo politico raggiunto da Draghi con i partiti della maggioranza sul tema del fisco appare a dir poco sconfortante. È vero che l’approssimarsi dell’elezione del capo dello stato sconsiglia di provocare rotture nel governo ed è anche vero che gran parte delle risorse disponibili sono andate a ridurre l’IRPEF piuttosto che l’IRAP, negando così un’ulteriore elargizione alle imprese, ma la nuova curva dell’imposizione fiscale fa registrare un passo indietro rispetto alla progressività voluta dalla Costituzione.
La riduzione da 5 a 4 scaglioni di reddito e l’abbassamento delle aliquote intermedie (dal 27/% al 25% e dal 38% al 35%) favorisce i redditi medi perché lascia intatte sia quella dei redditi bassi che, ahinoi, di quelli alti. Dal confronto tra nuova e vecchia imposizione risultano avvantaggiate tutte le fasce di reddito ma in maniera vistosamente sperequata: appaiono chiaramente favoriti i redditi annui compresi tra i 35 mila e i 70 mila euro. In questo arco sono privilegiati, e di gran lunga, i redditi tra i 45 mila e i 60 mila euro (e direbbe Totò nei panni del Principe di Casador: “Ma chi li ha visti mai?”). Questo si leggeva su la Repubblica del 27 novembre. La vistosa anomalia è dovuta al fatto che dopo la famosa bolla finanziaria del 2008 il mondo occidentale si è dedicato a risollevare le sorti della cosiddetta middle class, che ne era rimasta più colpita essendosi visti bruciati i suoi risparmi (sì, perché la middle class riesce a risparmiare, non dimentichiamolo). L’Italia non ha fatto eccezione: andavano in questa direzione anche gli 80 euro mensili del governo Renzi non a caso negati ai percettori di redditi bassi.
Perché la politica fiscale si sia risolta a foraggiare un po’ dappertutto il ceto medio è facile intuirlo: è quella parte della società che può acquistare beni e servizi permettendo al sistema produttivo di conseguire i suoi irrinunciabili profitti. C’è da osservare, tra l’altro, che le agevolazioni fiscali accordate al ceto medio non hanno spesso ottenuto il risultato sperato, cioè l’incremento dei consumi: l’incertezza del futuro ha infatti indotto la maggioranza a tesaurizzare i maggiori introiti; come sappiamo, il risparmio privato in Italia ha raggiunto negli ultimi anni un record così come, specularmente, la povertà.
Ma torniamo alla iniquità della “curva fiscale Draghi”. La Repubblica del già richiamato 27 novembre ci diceva che chi percepisce un reddito annuo lordo di 15 mila euro non beneficerà di alcuna riduzione dell’Irpef, chi arriva a 20 mila euro ne risparmierà 100 e chi si colloca a 25 mila euro ben 200. Senza soffermarsi analiticamente sulle singole fasce di reddito e fermo restando che ai redditi da 28 mila a 55 mila toccheranno in media 700, appare scandaloso che ci sia un risparmio anche per chi guadagna dai 75 mila euro in su, risparmio che andrà quindi anche a quelli che una volta chiamavamo “ricchi sfondati”: esattamente 270 euro cioè una bottiglia in più di champagne millesimato! Un padre di famiglia che risparmierà 200 euro annui potrà comunque largheggiare in pane, pasta e latte per ben 55 centesimi al giorno.
Che questo scempio sia frutto delle pressioni ricattatorie della destra di governo è fuori discussione, tant’è che lo stesso Draghi annunciava dei correttivi attraverso la rimodulazione delle detrazioni di imposta. Ed infatti la Repubblica del 3 dicembre ce ne dà conto richiamando, a pagina 13, l’improvvida tabella preparata dal ministro Franco “per smentire la lettura dei poveri esclusi dai benefìci”. Nella tabella c’è la ripartizione dei 7 miliardi destinati alla riduzione dell’IRPEF: “quasi la metà (3,3 miliardi) va ai redditi fino ai 28 mila euro, circa 2,7 miliardi alla fascia tra 28 e 50 mila euro, 1 miliardo a chi supera i 50 mila. I lavoratori dipendenti si assicurano 4,3 miliardi, i pensionati 2,3 miliardi, gli autonomi 284 milioni. Poiché sotto i 28 mila euro si concentrano 32,7 milioni di contribuenti su 41,5 totali (quasi l’80%) è chiaro che i risparmi annui in assoluto sono più piccoli. Si va dai 61 euro fino a 15 mila euro di reddito, 150 euro tra 15 e 28 mila euro, 417 euro tra 28 mila 50 mila, 692 euro (il massimo) tra 50 e 55 mila euro, 468 tra 55 e 75 mila euro, 247 euro sopra i 75 mila.”
Spiegato dunque l’arcano: i contribuenti con reddito sotto i 28 mila euro sono troppi e devono quindi arrangiarsi, quelli con redditi fino 15 mila euro dovranno centellinarsi i 61 euro annui di incremento mentre quelli oltre ì 75 mila euro, che sono riusciti, con grande sacrificio, a rimanere in pochi, potranno disporre di ulteriori 247 euro l’anno. Gli economisti ci spiegheranno che la filosofia della riforma è chiara: bisogna mettere un po’ di soldi nelle tasche del ceto medio che potrà risparmiare e finanziare gli investimenti i quali, accrescendo la produzione, daranno posti di lavoro ai disoccupati e miglioreranno i salari di chi già lavora. Una teoria, come abbiamo visto, tutta da dimostrare specie in un momento storico in cui i risparmi si rivolgono più alla costituzione di rendite finanziarie che non alle attività produttive. Insomma un circolo vizioso voluto anche dalle destre populiste che raggirano la loro stessa base costituita in larga parte proprio da disoccupati, emarginati e sottopagati che purtroppo non hanno neppure gli strumenti per capire che Meloni e Salvini li stanno prendendo in giro agitando paure (invasione degli immigrati, distruzione della famiglia tradizionale, perdita dell’identità (sessuale e nazionale), subdola inoculazione di vaccini per scopi diversi dall’immunizzazione) per tutelare l’interesse di chi i soldi ce li ha già.
Non sorprende, perché è ormai un’abitudine, l’acquiescenza con la quale il PD, ormai anch’esso da tempo orientato a corteggiare il mitico ceto medio, avendo ormai da tempo abbandonato i diseredati nelle mani dei populisti, sottostà all’azione ricattatoria delle destre. Ad oggi pare che solo la CGIL e la UIL siano contrarie e proclameranno uno sciopero generale (senza la CISL il cui DNA è rimasto democristiano), che Draghi giudica candidamente immotivato. Vedremo nel prosieguo dell’iter parlamentare se emergeranno fatti nuovi. Non disperiamo che, se le cose resteranno così, sia la stessa Commissione Europea a giudicare la riforma incoerente col PNRR che pone tra i suoi obiettivi primari la riduzione delle diseguaglianze. In questo scenario è apparsa rivoltante la bocciatura dell’emendamento col quale Draghi, bontà sua, avrebbe preferito destinare al caro bollette i 247 euro promessi ai percettori di redditi superiori ai 75 mila euro per il solo anno 2022, bocciatura alla quale ha concorso anche l’opposizione. Qualcuno dei suoi sostenitori borgatari, ammesso che ne venga a conoscenza, chiederà alla Meloni come si fa a concedere una bottiglia in più di “bollicine” ai ricchi per il prossimo Capodanno lasciando i poveri a luci basse?