Nel 1338 il patrizio napoletano Gualtiero Galeota, per sciogliere un voto fatto in gioventù durante le rivolte anti-angioine dei Vespri Siciliani, donò due vasti possedimenti terrieri a due ordini religiosi: uno a Portici, dove sorgerà l’insula francescana dedicata a sant’Antonio da Padova; agli agostiniani invece elargì un’intera area fuori dalle mura di Napoli detta carbonetium (dove si incenerivano i rifiuti cittadini). Lì sorse la magnifica Chiesa monumentale di San Giovanni Battista a Carbonara. Tale chiesa fu la preferita del giovane re Ladislao di Durazzo che volle abbellirla facendo costruire un chiostro per le meditazioni ricco di erbe medicinali ed alberi profumati (ortus conclusum). Ladislao amò tanto questo complesso da desiderare, un giorno, di esserci sepolto.
Desiderio che la sorella Giovanna II esaudì facendo erigere uno dei più bei sepolcri tardo-gotici dell’Italia meridionale. L’opera fu commissionata allo scultore Andrea da Firenze e ci vollero ben 14 anni (1414-28) per realizzarla. Un vero e proprio mausoleo di marmo alto ben 18 metri, posizionato nella zona absidale. La complessa opera scultorea è divisa in quattro registri. Nel primo troviamo quattro statue a tuttotondo, che servono anche da pilastri, rappresentanti le virtù cardinali (temperanza, fortezza, prudenza e magnanimità); nel secondo ordine troviamo le statue di Ladislao e Giovanna II assisi in trono, ai lati le virtù morali (fede, giustizia, speranza e carità). Sopra possiamo ammirare la cassa sepolcrale di Ladislao, benedetta da san Ludovico da Tolosa (anche se il re napoletano morì da scomunicato), ed un gruppo formato dalla Madonna col Bambino, attorniata da angeli e santi. Sulla sommità il ritratto equestre del re con tanto di spada sguainata verso il cielo. Come sfondo gli affreschi di Leonardo da Besozzo e, a completare il tutto, una scritta che recita “Divus Ladislao” (Ladislao il divino).
Una digressione necessaria: qualcuno noterà che in realtà le virtù teologali sono solo tre, mentre quelle cardinali sono sì quattro, ma non quelle indicate. Una lettura alternativa dell’opera possiamo ricavarla dal libro “Napoli Magica” del giornalista e scrittore Vittorio Del Tufo. L’intera rappresentazione sarebbe una illustrazione della “Magna Opus”, la grande opera degli alchimisti per trasmutare la vile materia in spirito. Ogni registro indicherebbe uno dei quattro stati per il successo dell’operazione: Nigredo, Albedo, Crinitas e Rubedo. Quindi, ogni elemento figurativo del sepolcro sarebbe associabile ad un ingrediente alchemico riconoscibile solamente dagli iniziati alla disciplina ermetica.
Comunque sia, osservando questa sontuosa macchina decorativa dedicata al sovrano che l’umanista Lorenzo Valla definì “lux italicum” (luce degli italici) e che ancora nell’Italia post unitaria era considerato il simbolo del partito neoguelfo, viene naturale raccontare, brevemente, la sua vicenda terrena. Nel 1386 Ladislao I d’Angiò-Durazzo, all’età di dieci anni, fu incoronato re di Napoli, Sicilia, Gerusalemme, Croazia e Ungheria. La morte del padre, Carlo III d’Angiò-Durazzo, gli impose questo grave fardello. La madre Margherita gli fece da reggente. Nel 1387 fu spodestato dal cugino Carlo II d’Angiò, appoggiato dai baroni napoletani filofrancesi. Riuscito a scampare alla morte, si rifugiò a Gaeta. Grazie alla protezione papale di Bonifacio IX il giovane re ebbe tempo di formarsi culturalmente e prepare la vendetta. Nel 1399, infatti, riconquistò Napoli cacciando l’usurpatore e punendo i baroni ribelli. Vero principe machiavellico ante-litteram, si affermò nello scacchiere politico nazionale come leader politico di straordinaria tempra. Di indole spregiudicata e di grandi ambizioni, il suo sogno era quello di unire l’Italia sotto la corona napoletana. Al motto di “Aut Cesar Aut Nihil” (o Cesare o niente), nel 1405 partì alla conquista degli stati pontifici. Nel 1408 occupò militarmente Roma (e fu scomunicato dal Papa). Per finanziare le sue campagne di conquista cedette la Dalmazia alla Repubblica di Venezia, assicurandosi 100.000 ducati e il blocco navale dell’Adriatico per i suoi avversari. Lo stesso fece con Genova per il Mediterraneo, mentre Firenze e Siena mediarono un compromesso con Ladislao per non essere invase. La trappola era caricata e pronta: Milano e Torino si sarebbero arrese, senza combattere, per fame. Nel 1413 tornò a Roma, scacciò le armate di Luigi II d’Angiò, che avevano tentato una sortita in sua assenza, e si sedette sul trono dei Cesari aspettando che arrivasse l’estate per realizzare il suo sogno. Ma una strana malattia lo colpì, volle subito rientrare nella sua Napoli dove spirò il 16 agosto 1414.
Si pensò per secoli che la causa della morte fosse da imputare alla sifilide, contratta per le “abitudini sessuali dissolute e promiscue di Ladislao”, ma una cronaca napoletana del XV secolo svelò l’arcano. Alla fine dell’Ottocento il ricercatore Paolo Garzilli, studiando il “fondo Brancaccio” (dal 1690 prima biblioteca pubblica cittadina presso la chiesa di Sant’Angelo a Nilo), ritrovò la cosiddetta “Cronica di Napoli” redatta da Notar Jacomo, un testo in volgare che racconta la storia della città dal periodo romano fino a quello aragonese. In tale testo si legge dello stratagemma usato per uccidere re Ladislao. Ad una vergine fiorentina, di cui il re si era invaghito, fu fatto fare un “Pennicello medicato de aconito con lo quale la (ragazza) se dovette annectare la natura” (una lavanda vaginale a base di aconito). L’aconito è un potente veleno di origine vegetale conosciuto sin dall’antichità. Essendo insapore poteva essere usato sia mescolato alle bevande che spalmato su di una superficie. Fu quindi sempre il sesso ad uccidere il re, non fu però il “mal francese” ma il “vizio latino” meglio conosciuto come “cunnilingus”. Diceva bene l’abate francese Sourignoux: “se si gratta la superficie della Grandezza vien sempre fuori la Miseria della condizione umana”.