È di pochi giorni fa la notizia del ritrovamento di una pregevole opera del maestro Giuseppe Sammartino nei depositi della Sovrintendenza della Reggia di Caserta. Nell’ambito di un riordino delle migliaia di reperti ivi conservati ci si è accorti di questa magnifica statua rappresentante un fanciullo in fasce. Scartabellando i registri ottocenteschi si è potuta ricostruire la storia dell’opera. La statua rappresenta Tito, l’erede al trono di casa Borbone, nato nel 1775, figlio di Ferdinando IV e di Maria Carolina d’Austria. La stessa regina la commissionò al maestro Sammartino (reduce dallo straordinario successo ottenuto con l’esposizione del “Cristo velato” nella Cappella della famiglia De Sangro) per celebrare la nascita dell’erede al trono del Regno delle due Sicilie.
Le cronache del tempo ci raccontano che purtroppo il bambino morì all’età di quattro anni. Maria Carolina pensò dunque di fare eseguire una copia in argento della statua per donarla ai frati della chiesa di San Francesco di Paola. Non sappiamo se tale copia sia mai stata realizzata: dagli archivi dei depositi casertani sappiamo solo che l’originale in marmo del Sammartino è registrata in entrata sin dal 1879. Tale eccezionale ritrovamento riapre il dibattito, mai chiuso, su uno dei più grandi scultori della sua epoca.
Straordinario artigiano in possesso di grande tecnica plastica o artista tout court? L’opera della Pietatella (Cristo velato), se pur di straordinario valore, è stato un limite per il giudizio critico dei posteri. Troppo si è scritto sulla “leggenda nera”, sulle presunte capacità magico-tecniche apprese nel cantiere “dell’alchimista e negromante” Raimondo. Scrittori importanti del passato come Benedetto Croce, Matilde Serao hanno parlato (spesso cedendo all’aneddotica) di “marmorizzazione della stoffa” oppure di un presunto “accecamento” subito dal Sammartino per far si che l’opera non fosse ripetuta nè fosse rivelato il segreto della sua realizzazione, facendolo addirittura morire giovanissimo (all’età di 33 anni come il Cristo del suo capolavoro). In realtà la sua straordinaria maestria plastica Sammartino la apprese in oltre settant’anni di lavoro costante sul marmo, sulla cera, sul legno e sull’argilla. Fu allievo del padre “figurinista” (modellatore di statuine) già dall’età di sette anni. Proseguì il suo apprendistato presso la bottega del Bottiglieri (che negli anni Venti del Settecento dominava il mercato della scultura in città). Dopo aver eseguito diverse committenze in città e nelle Puglie, poté permettersi una bottega tutta sua “con basso e controbasso sotto le mura di Sant’Aniello, prospicente la Porta di Costantinopoli” (nei pressi dell’attuale Galleria Principe di Napoli). Agli inizi degli anni Cinquanta iniziò a lavorare nel cantiere della Cappella della Pietà dei De Sangro, invitato come aiutante dal direttore dei lavori, lo scultore veneziano Antonio Corradini (già autore nella stessa cappella della “Pudicizia velata”). Proprio dall’anziano maestro apprese la tecnica nell’esecuzione di figure velate. Alla morte del veneziano gli subentrò nella realizzazione del famoso Cristo. Nel 1757, ormai assurto a notorietà, viene chiamato dal rettore della Certosa di San Martino per la decorazione delle due cappelle dell’Assunta e di San Martino, che gli commissiona, per la precisione: “quattro statue di tutto rilievo e panneggiate” e “sedici puttini raggruppati a due a due” da collocare al di sopra delle porte “reali o finte”. Successivamente alla conclusione dei lavori Sammartino fu invitato a collaborare con l’architetto (dal carattere difficile) Luigi Vanvitelli che aveva reinventato urbanisticamente l’area del “Mercatello” e delle “Fosse del Grano”, nell’area dell’attuale piazza Dante, realizzando il “Foro Carolino”. La scenografica “quinta” cittadina, oltre alla realizzata “Casa del Salvatore”, alla “Torre dell’orologio con moti stellari” e al loggiato a doppio fornice, prevedeva una imponente statua equestre dedicata al “despota illuminato” al centro della piazza (dove attualmente si trova il monumento a Dante Alighieri). Sammartino partecipò al concorso per la realizzazione, ma l’opera non gli fu mai commissionata nè fu mai costruita. Scolpì però almeno 10 delle 27 Statue delle “Virtù di re Carlo III”, che ornano il loggiato dei portici. Per farlo prese studio alla strada “Costagliola dei Carafa” (attuale via Salvatore Tommasi), logisticamente a metà strada tra le “Cavajole delle mortelle”, cave estrattive di tufo e luogo di stoccaggio dei marmi da scolpire (alle spalle dell’attuale MAN) e il cantiere del foro. Fino alla morte sopravvenuta nell’anno 1797, Sammartino continuò a lavorare a Napoli e in Puglia (soprattutto per il Duomo di Taranto).
Una produzione sterminata di statue e disegni in oltre settant’anni di attività per una variegata committenza, in una fiorente bottega laboratorio dove si formarono generazioni di scultori, stuccatori, coroplasti, che contribuiranno a fare di Napoli un riferimento culturale per la scultura tardo rococò. Spesso la mano degli “aiutanti”, abbassando il livello qualitativo delle opere, ne ha reso difficile l’attribuzione all’artista napoletano. Ma è giusto considerare che “Il tratto distintivo di questo periodo dell’Arte è il ravvisare interventi a più mani, sulle opere” (Federico Zeri, Conversazione sull’Arte) Nelle botteghe importanti il Maestro scultore era al vertice della piramide produttiva, alla base della quale vi era l’artigiano. Pensiero primario era onorare le commesse e accontentare il committente per cercare altre committenze.
Le spoglie mortali del Sammartino furono deposte nella Chiesa di Sant’Efremo Nuovo alla Salute, in una cappella di cui lo stesso artista curò la decorazione. La chiesa purtroppo andò distrutta durante un devastante incendio nel 1848. Andò tutto perso, tranne una statua di San Francesco che Sammartino aveva scolpito per la sua stessa tomba. Nella scelta della figura del Poverello d’Assisi forse possiamo intuire il carattere di mastro Giuseppe: umile, mite, più attento al suo lavoro che alla costruzione della sua fama immortale.