“Das Unheimliche” è un aggettivo, utilizzato da Sigmund Freud nel suo omonimo saggio, come termine concettuale per esprimere un sentimento più generico della paura che si sviluppa quando un’immagine, una persona, una situazione vengono avvertite come familiari ed estranee allo stesso tempo, cagionando angoscia mista ad una spiacevole sensazione di estraneità. La traduzione italiana dell’aggettivo, data allo scritto del padre della psicoanalisi, è nota come “il perturbante”, oppure, secondo il critico freudiano Francesco Orlando, “il Sinistro”. Per le opere di uno straordinario pittore del Seicento napoletano, Monsù Desidèrio, questo aggettivo calza a pennello. Temi principali dei suoi quadri sono le architetture: vedute paesaggistiche ed urbane dipinte usando la tecnica del “volo d’uccello” (rappresentazione dall’alto, secondo la visuale propria degli uccelli) oppure “architetture fantastiche squassate da silenziosi cataclismi, abitate da statue spettrali che sembrano muoversi come figure viventi. Scenari da incubo, sogni pietrificati, rappresentanti il gran teatro della morte e della notte” (Garavani).
Dalle scarse notizie biografiche del passato apprendiamo che Monsù visse ed operò nella capitale vicereale nel primo ventennio del XVII secolo e che forse celò la sua vera identità dietro un soprannome perché, essendo in pieno periodo controriformista, il mondo della cultura aveva patito un clamoroso giro di vite ad opera della Chiesa di Roma. L’ingerenza della Santa Inquisizione, in tutti i campi del sapere e dell’arte, stabiliva quali opere fossero da considerarsi “Ad Maiorem Dei Gloriam” e quali dovessero essere bruciate (frequentemente insieme al loro autore). Casi emblematici quelli del filosofo Tommaso Campanella, rinchiuso per le sue opere a Castel dell’Ovo, e del proto scienziato napoletano Giovan Battista Della Porta, che vide la sua opera “Magia Naturalis” messa nell’Indice dei libri proibiti e che fu costretto a chiudere la sua “Accademia dei Segreti” (che aveva sede all’Arenella, in Vico Salita due Porte) perché accusato come “Stregone demoniaco e mago Venefico” dal Santo Uffizio.
Col passare dei secoli il mistero dell’identità del pittore dalle “due facce” sembrava dovesse rimanere tale. Poi, nel 1935, durante una mostra sul Seicento tenutasi a Vienna, il teorico del movimento surrealista André Breton rimase affascinato da alcune tavole di Monsù Desidèrio tanto da farne oggetto di un piccolo saggio, celebrandolo come “surrealista ante litteram”. I riflettori della critica artistica e storica si riaccesero su questo atipico pittore. Addirittura, studiando le sue opere, si arrivò a definire Monsù come affetto da disturbo della personalità multipla (diagnosticato postumamente da Felix Sluys nel 1964 come disturbo dissociativo dell’identità). Finalmente, 1965, il sovrintendente della Pinacoteca di Capodimonte e lo stimato storico dell’arte Raffaello Causa scoprirono documenti d’archivio che provavano, inconfutabilmente, che dietro la firma di Monsù Desidèrio si celavano due artisti poco noti agli stessi addetti ai lavori: Francois Nomè e Didier Barra, entrambi nativi della città di Metz in Lorena. A Nomè erano da attribuirsi i soggetti misteriosi e perturbanti delle città in rovina, mentre a Barra le particolari vedute così attente all’indagine prospettica e al dato topografico. Cosa indusse i due artisti lorenesi a firmare le loro opere con lo stesso nome non lo sapremo mai; forse per ragioni di ordine pratico o forse perché, come ipotizzato da Fausta Garavani nel suo romanzo “Le vite di Monsù Desidèrio”, erano amanti. “L’amor che move il sole e l’altre stelle” sicuramente sarebbe una ragione capace di spiegare qualunque ipotesi.