La crisi afghana ci interpella drammaticamente

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Ansia, sconcerto, sincera preoccupazione spingono molti a esprimere solidarietà al popolo afghano, in particolare alle donne, di quel martoriato paese.

La tanta informazione, se da un lato sta spingendo alla formazione di una opinione pubblica solidale, a poco o a nulla potrà servire se i sistemi politici e di potere continueranno a mostrarsi sordi o falsamente partecipi al dramma di quelle popolazioni. Chi detiene il potere, chi governa i paesi occidentali non può mostrarsi sconcertato, non foss’altro perché la decisione del ritiro delle truppe americane e dei suoi alleati era da tempo programmata e loro ne avevano piena coscienza. È lecito chiedersi perché l’evacuazione dei collaboratori afghani con le truppe d’occupazione sia stato organizzato solo in concomitanza della partenza dei militari, perché non si è programmato per tempo e con ordine la loro evacuazione? Certo impensabile era ed è trasferire tutto un popolo da un paese ad un altro, ma oggettivamente in quel paese ci sono persone che più di altre si sono esposte alla vendetta talebana e che andavano adeguatamente protette anche in previsione dell’abbandono del campo di battaglia. Sarebbe stato giusto predisporre una strategia, una organizzazione concordata del ritiro e prevederne le conseguenze. Invece politici e governanti si sono mostrati meravigliati, presi in contropiede, e le iniziative diplomatiche, in quanto tardive, si sono dimostrate inefficaci come la convocazione d’urgenza del vertice G8.

Solo in pochi, i più esperti, diplomatici di lungo corso si sono espressi in modo palesemente critico e stanno ponendo con forza la necessità di ridefinire strategie e tattiche per garantire una civile convivenza tra tanti governi, fondati su convinzioni e pratiche culturali, religiose, sociali ed economiche assai diverse tra loro.

Ora i politici europei si pongono il problema di costruire un’Europa politica più coesa, anche militarmente, in grado di svolgere un ruolo da protagonista e non più gregario nelle vicende internazionali. Bisogna aspettare per capire se queste dichiarazioni segneranno un vero avvio di un processo o se sono tutte legate ad una situazione contingente.

Sulla questione è intervenuto con forza anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha scelto come sede per esprimere le sue convinzioni il 40° seminario per la formazione federalista europea in occasione dell’80° anniversario del Manifesto di Ventotene. Più che un discorso compiuto, il Presidente ha scelto la formula del dialogo diretto con i giovani presenti all’evento rispondendo ad una serie di loro domande. Consigliamo di leggerne la breve trascrizione pubblicata sul sito ufficiale della Presidenza della Repubblica.

Seppur il convegno/seminario aveva un tema specifico, il Presidente ha risposto ponendo questioni non solo europee ma riguardanti anche la complessa situazione internazionale determinata dal cambio di strategia del paese che svolge da decenni un ruolo centrale nell’assetto delle relazioni internazionali, gli USA.

Il Presidente, come molti altri osservatori internazionali, riconosce che il ritiro dall’Afghanistan segna la chiusura di una fase e il futuro si presenta sotto la luce cupa dell’incertezza. Su questo punto Sergio Mattarella ha preso una chiara posizione. Alla domanda di uno studente di Padova: Si paragona spesso il processo di integrazione con il procedere in bicicletta: se non si pedala, si cade. Quale crede sia la prossima tappa per evitare di cadere (e, dunque, evitare la prossima crisi)? Il Presidente ha così risposto: “Questo esempio della bicicletta vale per qualunque costruzione non completata nell’esperienza umana e quindi vale per l’Unione europea, naturalmente. (…) Vorrei tornare all’Afghanistan, che ha messo in evidenza la scarsa – per usare un termine già ampio – capacità di incidenza dell’Unione europea sugli eventi. (…) È indispensabile quindi adottare subito gli strumenti. Anche questo è tema della Conferenza sul Futuro dell’Europa, ma è tema anche già all’ordine del giorno degli organi dell’Unione. Occorre dotare l’Unione degli strumenti di politica estera e difesa comune. Sono fermamente convinto dell’importanza del rapporto transatlantico, dell’Alleanza Atlantica, della Nato, pilastro fondamentale per l’Italia e per l’Europa. Ma proprio quel rapporto transatlantico chiede oggi che l’Unione europea abbia una maggiore capacità di presenza di politica estera e di difesa. Perché lo squilibrio tra la capacità d’Europa sugli altri campi e questo è troppo alto.”

Nella sua chiarezza la posizione espressa dal Presidente evidenzia i tanti vincoli posti dal potente alleato americano, che costituiscono il vero ostacolo alla nascita di una Unione Europea indipendente in grado di incidere sugli assetti internazionali. È da tempo che la NATO, venute meno le condizioni che ne determinarono la nascita (la divisione in blocchi contrapposti tra paesi occidentali, democratici, pluralisti e con economie industriali basate su regole di libero mercato, e il blocco comunista con a capo l’Unione Sovietica), sta mostrando pienamente il suo ruolo di strumento per affermare l’egemonia del paese più potente dell’alleanza. Se l’appartenenza dell’Italia alla Nato ha impedito nei primi anni del secondo dopoguerra che il nostro paese precipitasse in una terribile guerra civile, è pur vero che il prezzo che abbiamo pagato è stato molto alto e non misurabile in termini di partecipazione al finanziamento economico degli armamenti, di perdita di sovranità territoriale, di autonomia politica ed economica. Basti pensare alle numerose basi militari disseminate sul nostro territorio, che sono veri e propri avamposti dell’esercito americano, dove sono pronte all’uso decine di testate nucleari. Non ci si può augurare la formazione di organismi internazionali europei in grado di fare esprimere con un’unica voce una serie di paesi, che hanno un peso rilevante nel sistema economico industriale, auspicare addirittura la nascita di un unico esercito (cosa di per sé assai complessa e dai risvolti pericolosi che non ci convince del tutto), e al tempo stesso ribadire l’importanza dell’alleanza atlantica. Sono due percorsi inconciliabili a meno che non si pensi che tutta la questione possa risolversi con un cambio di nome, da alleanza tra singoli stati ad alleanza tra alleanze.

Molto di quanto ha detto il Presidente è certamente condivisibile, la sua attenzione alle istituzioni europee, il richiamo alla necessità di passare dalla semplice unificazione monetaria allo sviluppo di un sistema bancario centrale unico, alla necessaria unificazione dei sistemi fiscali ancora troppo diversi, alla capacità di affrontare l’ormai epocale processo migratorio in termini di tutela dei diritti inviolabili dell’uomo con una strategia e una organizzazione unica. Ma proprio per questo il richiamo all’importanza del rapporto transatlantico, dell’Alleanza Atlantica, della Nato, pilastro fondamentale per l’Italia e per l’Europa, ci sembra non appropriato, in fondo contraddittorio. Se l’interesse dell’Europa combacia perfettamente con una visione globale dello sviluppo civile, culturale ed economico del pianeta, questo confligge direttamente con una alleanza costruita intorno alla difesa degli interessi di un solo paese che in cambio elargiva ed elargisce aiuti ed assistenza ai suoi alleati poveri o scapestrati considerati incapaci di gestire i loro stessi paesi. Sono queste questioni che dovrebbero interessare tutte le forze politiche italiane ed europee: se si avvia un vero processo di riflessione e nuova elaborazione, si potrà determinare la nascita e la crescita di una classe dirigente europea.

Purtroppo, oltre che a mostrare qualche lacrima di coccodrillo, si sa che in Italia ed in Europa le forze politiche sono solo impegnate a costruire il più ampio consenso elettorale (come anche il Presidente ha criticato) preoccupandosi di green pass e della sua estensione, dell’accesso a bar e ristoranti, e a trovare il modo per accaparrarsi quante più risorse economiche messe a disposizione dal Piano economico europeo post pandemia.

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