“I più pericolosi nemici d’Italia non sono gli Austriaci, sono gl’Italiani”. Si intuisce dalla menzione degli austriaci che ci troviamo nel periodo risorgimentale e forse qualcuno che ha letto I miei ricordi di Massimo d’Azeglio, scritto nel 1863, ancora si chiede il perché di quel suo giudizio. La risposta ce la fornisce lo stesso autore: “Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio; perché pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro, perché l’Italia, come tutti i popoli, non potrà divenir nazione, non potrà essere ordinata, ben amministrata, forte così contro lo straniero, come contro i settari dell’interno … finché grandi e piccoli mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere … per dirla in una parola sola, il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani”.
Da quelle sconsolate parole trascorsero circa sessant’anni, si arrivò ai primi del Novecento e in quel Paese dove gli austriaci non erano più il nemico, l’italico popolo aveva trovato, finalmente, chi avrebbe potuto trasformarli. Chi, da una condizione di abbrutimento scaturita dalla tragedia della Grande Guerra, li avrebbe fatti diventare i “figli della lupa”, popolo coraggioso, impavido, temerario, leale, onesto, “romano”! Mai illusione fu di più breve durata! Dal 1919, data della fondazione dei “Fasci di combattimento” di mussoliniana memoria, alle parole che adesso leggeremo, non erano trascorsi che soli tre anni, quando Piero Gobetti su La rivoluzione liberale del 23 novembre 1922 scrisse: “Il fascismo in Italia è un’indicazione di infanzia perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’entusiasmo. Si può ragionare del ministero Mussolini come di un fatto d’ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l’autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, dovrebbe essere guardata e guidata con qualche precauzione. […] Né Mussolini né Vittorio Emanuele hanno virtù di padroni, ma gli italiani hanno bene animo di schiavi”.
Impietosa, ma realistica l’«autobiografia degli italiani» di Gobetti, che continua descrivendo i suoi connazionali come “immaturi, desiderosi di affidarsi a ‘padri padroni’ che li guidino e comandino”. Gobetti non era solo in questi suoi taglienti giudizi. Quasi nello stesso periodo gli faceva eco Antonio Gramsci che, secondo Francesco Filippi, “non esita a parlare della piccola borghesia come del «popolo delle scimmie» di kiplinghiana memoria, di una «classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti», che denuncia i suoi riflessi oratori, teatrali, piazzaioli, fa eco il Gobetti che scopre come il «segreto di tanta parte del successo di Mussolini è nella sua intuizione della teatralità italiana»”.
Facciamo, adesso, un salto di parecchi decenni e arriviamo ai giorni nostri. Sfogliamo i quotidiani e, ormai da sempre, leggiamo notizie che, proprio perché sono “note”, non sono più da tempo una novità. “Al cimitero di Palermo, centinaia di bare in attesa di essere inumate da più di un anno giacciono nei depositi del Comune, e appestano l’aria”. Sempre a Palermo, “l’accumulo di centinaia di tonnellate di rifiuti sparsi per strada impediscono la circolazione e costituiscono un serio pericolo per la salute pubblica”. Risalendo lo stivale si giunge a Napoli, dove “Secondigliano e Scampia sono letteralmente invase dai rifiuti che, dopo aver invaso i marciapiedi, si sono riversati in strada occupando quasi intere carreggiate”. Ancora qualche chilometro più su e si arriva alla capitale, a Roma, la città eterna (eterna discarica), che, sotto la gestione Raggi, annaspa nei rifiuti che la rendono maleodorante e impresentabile. E lo stesso discorso vale per decine di altre città e cittadine del bel paese che, diversamente da quanto accade nel resto della civile Europa, dopo decenni non hanno ancora imparato a tenere puliti i loro ambiti comunali. Quando un problema si trascina, irrisolto, per decenni, è il chiaro sintomo che qualcosa non va. Poiché altri popoli non particolarmente più intelligenti e capaci del nostro sono riusciti a gestire efficacemente il problema, allora deve trattarsi di qualcosa che è insito in noi stessi.
Passando dalla spazzatura alla gestione della cosa pubblica, scopriamo senza difficoltà che il nostro Paese più che sulla Costituzione è basato sull’abusivismo. Intere regioni, in particolare quelle meridionali, hanno ricoperto il loro territorio di costruzioni abusive, violentando il paesaggio, inquinandolo, sottraendo bellezze paesaggistiche uniche al mondo alla fruizione di chi le apprezza. Perché? È semplice, perché i cittadini di questo Paese sono refrattari alle norme e alle regole, che vanno certamente bene per gli altri, ma mai per sé stessi. Quanti di noi, prima di fare ingresso in un ufficio pubblico per qualunque motivazione, non si sono accertati di vedere se conoscono qualcuno che conosce l’impiegato che a noi serve e portargli “i saluti” di quella persona, nella speranza di ricevere un trattamento migliore e più celere? E, come mai, si discute da anni del grave problema dell’evasione fiscale che impedisce l’ammodernamento del Paese e il superamento di problemi ormai stratificati senza riuscire a risolverlo? Semplice: perché non lo si vuole veramente. In un paese “normale”, quando a chi è stato assegnato un incarico non è in grado di poterlo portare a termine, si dà il benservito per trasferirlo a chi è più capace. Non così in Italia, dove nei posti di maggiore responsabilità non vediamo i migliori, i più capaci, i più idonei, ma tutto il contrario. Basta guardare chi in questo momento storico guida le tre formazioni più presenti in Parlamento. M5S, Lega e Fratelli d’Italia. Personale politico di irrilevante caratura, privo di competenze specifiche se non quelle di arringare le folle che non aspettano altro che “il richiamo della foresta” per prendersela con qualcuno invece che con sé stessi. Dove mai si può andare a parare con gente che, tipicamente italiana, come lo era Mussolini, secondo il ritratto che ne fa Benedetto Croce, è “priva e incapace di ogni fede e pronto ad accettarle l’una dopo l’altra teso ad abbracciarle tutt’insieme mescolandole, mosso dall’unico impulso della sua brama di dominio”.
Il problema dell’Italia, quindi, è, come acutamente scrisse D’Azeglio, non il regime a cui sono sottoposti i suoi cittadini: liberale, illiberale, di destra, di sinistra, di centro, ma gli italiani stessi, e il Fascismo, a suo tempo, è stata una parentesi di soli vent’anni di un italico carattere nazionale che è molto più antico, e probabilmente irredimibile. Pertanto, quando ci troviamo di fronte a qualcosa che non funziona, prima degli alti lai che siamo pronti a levare, ancora una volta chiediamoci fino a quanto ci identifichiamo nella «autobiografia della nazione» in cui viviamo.