Chi ha detto che le botte non servono? Quelle di Genova, date vent’anni fa a chi manifestava contro le decisioni che i potenti della terra avrebbero preso nel G8, sono servite e come. Quelle botte, la vita stroncata di Carlo Giuliani hanno bloccato, fino a cancellarlo, un grande movimento politico internazionale le cui ragioni, proprio in questi ultimi anni, ritornano a mostrare la loro fondatezza e lungimiranza. Nei commenti su quel giorno drammatico si preferisce soffermarsi sulle crudeltà delle forze dell’ordine, Carabinieri e Polizia di Stato, perpetuate nella Caserma Diaz e nel corso di tutta la manifestazione, che portarono alla morte di Carlo Giuliani, ma si stenta a riconoscere le ragioni politiche e culturali di quel movimento. Quel luglio 2001 è emblematico anche perché in Italia ci fu il cambio di guardia al governo del Paese così come nei maggiori paesi rappresentati nel summit. Da D’Alema a Berlusconi in Italia. Uno scelse Genova e ne predispose l’organizzazione, l’altro lo gestì. Responsabilità differenti, certo ma solo in parte. Uno predispose la blindatura della città, l’altro, lo scrive chi ne ha ricostruito la cronaca, si occupò dell’estetica decidendo colori e piante per l’addobbo lasciando al suo vicepresidente, l’ex missino Fini, la gestione militare.
Il movimento allora era espressione di una contestazione che aveva radici in tutte le parti del mondo. Erano anni in cui gli apparati politici si stavano riorganizzando, come la servitù di corte quando cambiava il sovrano, per assecondare e sostenere le scelte dei gruppi economici e finanziari dominanti. A Genova nel 2001 si è messo in atto un omicidio politico di grandi dimensioni, ma anche il suicidio delle classi dirigenti politiche dei paesi ricchi. Uccisero sapendo di essere uccise. Purtroppo non sempre e solo metaforicamente.
Prima durante e dopo quel fatidico giorno, si sono sempre sottaciute, ignorate se non vilipese, le ragioni di quel movimento e si è cercato di riportare tutto nel binario classico del sistema che si autoregola. Gli eccessi nella repressione di Genova sono stati “individuati e corretti”, quindi il sistema si è ancora una volta autoassolto. Le conseguenze sulla vita, le speranze, le ambizioni di un’intera generazione sono state cancellate. Quel tentativo estremo, che quel movimento disegnava, di ricucire strappi generazionali, di ridar vita a chi in anni precedenti aveva lottato per una società diversa e meno diseguale, fu mandato in fumo, dato in pasto ai lacrimogeni e ai manganelli. Dopo è stato semplice scrivere articoli o libri come “gli sdraiati”. Anche allora, quell’informe organizzazione politica nata dalle ceneri del PCI non seppe scorgere l’occasione per ridefinire il proprio ruolo e funzione, preoccupata com’era di leccarsi le ferite per aver perso la guida del governo del Paese. Genova, forse ancor più dell’89, anno della caduta del muro di Berlino, segna la vera svolta, conferma sul piano sociale quella che fu una sconfitta politica ed istituzionale che scompaginò i rapporti di forza economici e militari a livello globale. Per qualche decennio la resistenza sociale continuò a manifestarsi e bisognava stroncarla definitivamente, e Genova ne fu l’occasione.
Da quella storia si deve ripartire, perché gli esseri umani non sono una tabula rasa, conservano memoria propria, familiare e sociale. Oggi non bisogna cercare di convince qualcuno che c’è la possibilità di cambiare lo stato delle cose, ma si deve cercare di trovare la medicina per fare uscire masse tumultuose dal proprio stato letargico determinato da micro e macro traumi celebrali.
Tutto il resto è noia.