Gli europei di calcio si sono infine conclusi in un clima di generale euforia forse perché averne potuto disputare la fase finale è parsa a tutti come una giusta rivalsa sulla pandemia, il nemico comune da battere.
Tutto il percorso finale, fino al meritato successo della nazionale italiana, è stato punteggiato, come era prevedibile, da commenti spesso inneggianti, esageratamente, a singoli giocatori o alla squadra nell’illusione che il tifo suscitato fosse riconducibile ad un autentico amor di patria. Sappiamo tutti che non è così: specialmente qui da noi si diventa patrioti solo di fronte ai successi sportivi e segnatamente calcistici. È passato invece in secondo piano, dopo le polemiche iniziali, il comportamento tenuto dalle squadre e dai singoli rispetto alla campagna antirazzista del “Black Lives Matter” (letteralmente, “le vite dei neri contano”), rilanciata dopo gli episodi di violenza bestiale perpetrata da poliziotti statunitensi ai danni di malcapitati afroamericani.
All’inizio i comportamenti delle squadre e dei singoli sono stati tutt’altro che univoci. Alcune squadre di sono inginocchiate al completo, dando testimonianza della propria solidarietà insieme ad alcuni singoli calciatori delle altre squadre. Ci si attendeva un adeguamento generale a quella che a noi è sembrata un’iniziativa sacrosanta. Non è stato così. In gergo calcistico e sportivo in generale si usa l’espressione “mettere in ginocchio gli avversari” per alludere ad una vittoria schiacciante. Mettere in ginocchio la propria squadra è evidentemente un’impresa altrettanto difficile. Ci sono riuscite senza sforzo soltanto il Galles, il Belgio e l’Inghilterra, che poi si è clamorosamente smentita dopo la sconfitta in finale con l’Italia mettendo in scena, tra le altre gravi scorrettezze rivolte alla nostra squadra, anche una diffusa denigrazione dei tifosi nei confronti dei calciatori neri colpevoli di aver fallito i calci di rigore nella finale, il che è razzismo allo stato puro. L’Italia, superata la proverbiale disorganizzazione iniziale, in cui solo alcuni giocatori si sono genuflessi all’inizio della partita col Galles, ha poi optato (pare per scelta degli stessi calciatori) per una condotta unitaria, adottata però, di volta in volta, a seconda del comportamento della squadra avversaria. Grande prova di incoerenza, condivisa con poche altre rappresentative nazionali: quella che doveva essere una testimonianza di civiltà, ridotta invece ad un gesto di cortesia nei confronti degli avversari.
Come sia potuta emergere questa linea di condotta lascia perplessi: meglio sarebbe stato lasciare ciascun calciatore libero di scegliere e così ognuno si sarebbe assunta la responsabilità personale del proprio atteggiamento. Non dimentichiamo che un calciatore, specie se famoso, è un personaggio pubblico, come dimostra la frequenza con la quale alcuni di loro svolgono il ruolo di testimonial in spot pubblicitari, talvolta anche con finalità non commerciali, per la verità. Le sue scelte sono, quindi, in grado di orientare i comportamenti dei suoi fans. Se si considera la natura molto promiscua della tifoseria calcistica, in cui l’insensibilità al tema della discriminazione razziale è certamente molto diffusa, un pubblico, condiviso gesto di solidarietà con i neri avrebbe avuto grande valore.
Tirando le somme, ci si può chiedere a chi faccia comodo che la maggior parte delle rappresentative nazionali partecipanti alla fase finale degli europei non abbia manifestato sensibilità per il problema razziale. Forse perché tra loro figuravano anche quelle di paesi prossimi a regimi illiberali, come la Polonia, l’Ungheria ed altri? Sorprende, in questo caso, che un motivo di opportunità geopolitica possa aver ragione anche del tradizionale antirazzismo di paesi come la Germania, la Francia, la Spagna e la stessa Italia. O è per caso la UEFA che decide in una sorta di autonomia assoluta, giustificata dalla montagna di interessi economici che governa? Non a caso è stata le UEFA a scoraggiare, con successo, l’illuminazione dello Stadio di Monaco di Baviera con i colori dell’arcobaleno. E della stessa superiore autonomia gode, su scala planetaria, anche la FIFA, che ha affidato al Qatar la fase finale dei prossimi mondiali di calcio, malgrado questo regime sia accusato di sostenere gruppi integralisti islamici.
FIFA e UEFA non hanno dunque sensibilità politica e si mantengono opportunisticamente in una bolla dove dominano esclusivamente gli interessi economici. E questo rappresenta un bel danno per la coscienza dei cittadini, almeno di quelli più evoluti, del globo: non opporsi a fenomeni così negativi, quali sono il comportamento dei poliziotti statunitensi o l’ambiguo collateralismo del Qatar, è una colpa perché rappresenta una pericolosa legittimazione di comportamenti inammissibili agli occhi del mondo civile. Un’occasione perduta, dunque, per schierarsi contro l’odio razziale.