Il graduale allentamento della pressione pandemica ci sta riportando alla nostra quotidianità, più serena ma anche più scontata. La recuperata normalità e, forse, l’avanzare dell’età ci spingono verso quella stagione in cui riaffiorano ricordi che credevamo sopiti: eventi totalmente rimossi, canzoni ascoltate alla radio, lontani parenti archiviati o defunti, conoscenti che entrarono nella nostra vita occasionalmente, ma anche paesaggi, sapori, profumi sottili. Gli episodi dell’infanzia, in particolare, ci appaiono i più teneri forse perché ci restituiscono l’innocenza che da adulti guardiamo come un paradiso perduto.
Rivedere con la memoria quei venditori ambulanti che negli anni ‘50, all’ingresso ed all’uscita dalla scuola, nei quartieri popolari di Napoli, vendevano a seconda della stagione le “spighe” bollite, le “cèveze” servite su una foglia di gelso, le caldarroste, le “allesse” o le sorbe, “ ‘e sòvere”, riempie il cuore di nostalgia. E c’erano anche le “sòvere pelose”, bacche dolcissime ormai dimenticate ma che da adulti abbiamo scoperto essere né più e né meno che i corbezzoli, oggi reperibili alla fine dell’estate su alcuni arbusti disseminati nel Parco Virgiliano.
Per castagne e “sovere”, pelose e non, vigeva una convenzione tra il venditore e i piccoli avventori: i ragazzini gli davano i loro quaderni usati ricevendo in cambio, per ogni quaderno, un po’ di castagne o di sorbe in un “coppetiello” fatto proprio con una paginetta di quei quaderni.
Durante le vacanze estive gli ambulanti passavano ai fichi d’India, che potevi acquistare direttamente o conquistare, giocando d’azzardo, tramite “appizzata”. L’”appizzata” era una sorta di scommessa: pagando avevi diritto a lasciarti cadere dalle mani, in direzione della cassetta sottostante contenente i fichi, il coltello che ti consegnava il venditore. Se al termine della caduta verticale il coltello “appizzava” un fico, potevi tirarlo su. Il fico era tuo se non si staccava e sempre che tu non facessi il furbo inclinando il coltello per impedire che il fico si sfilasse. Se non “appizzavi” o se il fico “appizzato” si staccava durante la risalita, avevi gettato al vento i soldi spesi. Vero è che spesso il gestore “truccava” il coltello sbilanciandolo in modo che prendesse una direzione un po’ diversa dal previsto, facendoti fallire la mira. Per capire come funzionava il coltello ci volevano a volte numerose “appizzate” a vuoto, che però pagavi una dopo l’altra.
L’estate era anche la stagione della “rattàta”, quella che a Roma chiamano ancora “grattachecca”. Il venditore di “rattàte” non era un ambulante ma per lo più una donna fornita di un “bancariello” sul quale giaceva una grossa stecca di ghiaccio, sottratta alla liquefazione grazie a una tela di sacco che la isolava discretamente dalla calura estiva. Con un aggeggio di alluminio la donna grattava dalla stecca un piccolo quantitativo di ghiaccio tritato che poi irrorava, a tua scelta, di uno sciroppo di dubbia qualità, di colore verde, giallo, arancione o rosso.
Al rientro da queste gratificanti incursioni in un passato remoto certamente idealizzato, ti ritrovi un po’ più invecchiato: è il prezzo che bisogna pagare per questi viaggetti pieni di rimpianto ma anche di magia. Ti ricongiungi quindi ai tuoi piccoli acciacchi con i quali devi rassegnarti a fare i conti in senso, per fortuna, solo farmacologico. Rimpiangi i tempi in cui andavi fiero della tua prostata e guardi con terrore al momento in cui, se una bella signora ti offrisse le sue grazie, dovresti a malincuore rispondere: “Prego, non si disturbi.”