Parlare di arte contemporanea non è mai facile, sono tantissime infatti le persone che non riescono a capire la differenza tra un oggetto comune ed un’opera d’arte.
Per un approccio che non sia solamente empirico, è necessaria una premessa. La storia dell’arte è legata indissolubilmente al periodo storico ed ai suoi avvenimenti. Dopo le rivoluzioni e le guerre del secolo scorso, in cui le classi dominanti come l’aristocrazia e il clero, che avevano largamente contribuito nei secoli passati alla fioritura dell’arte rivestendo il ruolo di maggiori committenti, nel momento in cui queste perdono i loro privilegi, si privano anche della possibilità di influire sugli orientamenti artistici. Gli artisti, orfani dei mecenati, possono da quel momento scegliere se essere apprezzati dai contemporanei rimanendo fedeli alla tradizione naturalistica oppure se tentare di proporre la propria visione del mondo col rischio di rimanere incompresi.
Uno degli obiettivi della critica artistica è quello di trovare delle basi razionali per la valutazione delle opere. Esistono in proposito diverse correnti di pensiero: la contrapposizione più comune è quella fra critica storica, che ha per oggetto le opere del passato, e critica contemporanea rivolta ai lavori di artisti viventi. La critica contemporanea, avendo un approccio più estemporaneo, viene talvolta smentita e sono numerosi i casi di artisti acclamati dalla critica e poi dimenticati dalla storia (come i pittori accademici del tardo XIX secolo) o, viceversa, movimenti artistici inizialmente non apprezzati e in seguito riabilitati dalla critica (come i primi lavori degli impressionisti, dei fauves, dei cubisti ecc.).
Un saggio dal titolo “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, scritto dal filosofo tedesco Walter Benjamin nel 1936, si è venuta affermando come un prezioso strumento per lo studio e la comprensione dell’arte nelle sue forme ed espressioni contemporanee. In sostanza il filosofo sostiene che l’introduzione, nel XX secolo, di nuove tecniche per produrre, riprodurre e diffondere a livello massivo opere d’arte ha radicalmente cambiato l’atteggiamento verso l’arte sia degli artisti sia del pubblico. Nel passato la relazione tra l’arte e lo spettatore era definita dall’unicità ed irripetibilità dell’opera (un quadro, una statua avevano oltre che un valore intrinseco anche una storia individuale fatta dai materiali di realizzazione, dal contesto storico, dai passaggi di proprietà ecc.) che la rendevano “autentica”. Con l’avvento della fotografia e del cinema il concetto di autenticità sembra perdere importanza in quanto la riproduzione meccanica consente di collocare l’opera in un contesto di consumo di massa. La perdita dell’unicità ha come conseguenza la perdita dell’“aura” (il valore cultuale, quasi mistico, intrinseco in ogni capolavoro). La perdita di questo valore culturale ha come conseguenza che l’opera smette di essere rappresentazione estetica e assume il valore di rappresentazione fruibile per la società massificata.
Pertanto le due forme sotto cui si presenta l’arte del XX secolo – da una parte, la cultura di massa, dall’altra, l’avanguardia artistica – sono accomunate dalla perdita dell’“aura”; come il cinema abolisce la contemplazione attraverso il rapido susseguirsi delle immagini, così il Movimento Dadaista dissacra l’espressione artistica, utilizzando materiali degradati in funzione provocatoria. L’artista vuole non più deliziare il pubblico col suo lavoro, ma influenzarne il gusto orientandolo verso scelte alternative di rappresentazione, che appartengono solo al suo mondo privato. L’opera d’arte si trasforma da prodotto di valore estetico oggettivo a performance di non immediata comprensione.
Lo storico dell’arte Jean Clair, direttore del museo Picasso di Parigi e accademico di Francia, in un recente saggio dal titolo “L’inverno della cultura” ne dà una condivisibile spiegazione: “Ciò che avete di fronte, quotata milioni di dollari, sembra quindi essere semplicemente una operazione di marketing: un mondo di manifestazioni, della più diversa natura e tecnica, che nulla hanno a che fare con il sentimento ed il piacere di gustarsi un prodotto della maestria, delle capacità, del talento e dell’esperienza di anni di impegno, di studio e di duro lavoro per imparare, ma una manifestazione estemporanea, che può essere distrutta dopo la sua esposizione, che coinvolge il mercato in maniera abnorme, mercato promosso da curatori, critici, galleristi ecc. che cercano di portare alle stelle il valore di manifestazioni e oggetti esposti a scopo di lucro.”
L’argomento appena accennato può apparire meno comprensibile di un “dripping” di Jackson Pollock (tecnica pittorica che consiste nel versare o far gocciolare i colori direttamente dal tubo o dal barattolo su una tela disposta per terra); per cui cedo il passo ad una scena comica tratta dal film “Così parlò Bellavista” dell’indimenticato Luciano De Crescenzo. In occasione della visita ad un’esposizione d’arte contemporanea alla Villa Pignatelli, il “Professore” è accompagnato da due giovani frequentatori del suo “Simposio”, Saverio lo spazzino e Salvatore il vicesostituto (!) portiere, che incontrano per la prima volta in tale occasione l’arte contemporanea attraverso le opere di Fontana, Burri e Tom Wesselmann. Ed è proprio un’opera di quest’ultimo a suscitare nei due neofiti le maggiori perplessità: l’interno di un bagno con tanto di lavabo, specchio e gabinetto. A partire dal lavoro di questo noto esponente della pop art americana inizia una riflessione esilarante, ma sempre puntuale, su cosa è percepito come arte e cosa non lo è, fino al famosissimo interrogativo che Salvatore pone a De Crescenzo: un lavoratore del tremila, ritrovando il bagno di Wesselmann, penserà di aver trovato un capolavoro o un “cesso scardato”? Ai posteri l’ardua sentenza.
Nel leggere questo stimolante articolo con l’esilarante e dissacrante chiosa riferita al film “Così parlò Bellavista”, mi è venuto in mente, a proposito di arte contemporanea, l’artista Paladino e la sua Montagna di sale. Nell’articolo viene sottolineata la dirompente erosione dell’originalità nell’arte per l’emergere di nuove tecnologie, la fotografia nell’arte pittorica, il cinema nella letteratura, diventate arte a loro volta. Ma la capacità artistica non si esaurisce mai, riproponendo nuovi e vecchi temi. Il significato iconoclastico che Paladino ha impresso alla sua statua sta anche nell’uso anticonvenzionale dei componenti e del materiale usato che hanno suscitato scalpore meraviglia e stupore, come ogni opera d’arte insigne provoca in chi l’ammira, sovvertendo la visione con cui si guarda all’ordine delle cose. L’uso di quel materiale ha sottolineato e evocato con grande suggestione l’effimero dell’esistenza: la struggente sofferenza dei cavalli senza cavalieri lasciata alle temperie del clima, si sarebbe dovuta sciogliere, come il sale con cui era stata rappresentata. Una situazione che finisce, un’opera d’arte pensata e allestita come una performance teatrale interpretabile all’infinito e in maniera infinita, una sorta di riproducibilità di cui l’artista si riappropria sottraendola alla mercificazione.
L’immagine e il materiale usato indicano la precarietà della vita che solo l’arte può in parte dotare di senso restituendo all’artista un suo spazio autonomo e a chi lo apprezza un liberazione dalla transitorietà della storia.
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tina Russo
Salve , La ringrazio per aver letto l’articolo ed averlo trovato stimolante. Il suo commento denota oltre alla sua “robusta cultura” (nutrita da tante e svariate letture) una sensibilità estetica non comune. Premetto che non sono un nemico dell’arte contemporanea per definizione, amo anzi Palladino e la transavanguardia, come il lavoro dei grandi Burri, Fontana e Pistoletto. In loro soprattutto ammiro il lavoro di maiuetica concettuale a monte del processo creativo e del risultato espresso dall’opera finale. Converrà certamente con me che ciò che è appannaggio di tutti, come la percezione della bellezza intrinseca di un’opera, è ontologicamente riconoscibile in maniera universale.Quello che non condivido dell’arte concettuale (e lo dico con infinita modestia) è la tautologia artistica in cui i concetti e le idee espresse siano più importanti del risultato estetico e percettivo dell’opera stessa. La saluto cordialmente.