La scrittrice e giornalista Matilde Serao nel suo romanzo “Il paese della cuccagna”, dato alle stampe nel 1890, definiva il gioco del lotto “l’acquavite di Napoli”; Infatti, come il potente distillato alcolico ha il potere di ottundere i sensi e creare dipendenza, così il lotto era diventato per i partenopei una vera e propria droga. Secondo uno studio statistico del Ministero delle finanze, datato 1888, ogni cittadino napoletano spendeva per giocare in media sei volte in più rispetto al dato calcolato su base nazionale. Questa mania ludopatica investiva tutti i ceti della popolazione, tanto da divenire oggetto di studio della nascente branca della sociologia e argomento letterario preferito dei viaggiatori del grand tour, che lo definivano “il gioco napoletano”.
In realtà il lotto nacque a Genova nel 1539. Gli abitanti della città ligure infatti puntavano, illegalmente, sulla elezione dei cinque eletti tra i novanta canditati al Senato della Repubblica. A Napoli invece si puntava, sempre clandestinamente, sul cosiddetto “lotto delle zite”, un’iniziativa benefica che risale al 1520 e che fu promulgata dalla Regia Camera del Vicereame: si creò una lotteria a cui potevano partecipare 90 ragazze da marito indigenti (zite), provenienti dai tanti orfanotrofi del Regno; alle prime cinque sorteggiate (abbinate ad un numero da 1 a 90) venivano concessi 50 ducati di dote e un corredo. Le donne premiate erano chiamate “bonafficiate” ossia beneficiate. La lotteria si svolse, fino al 1865, alla Pignasecca nella strada che ancora oggi si chiama vico Bonafficiata vecchia.
Nel 1736 re Carlo III di Borbone decise di istituzionalizzare il lotto facendolo divenire un gioco controllato dalla Corona. Il sovrano illuminato aveva intuito che, se il gioco fosse stato legalizzato, i lauti proventi delle puntate sarebbero finiti nelle casse dello stato. Per attuare il suo progetto dovette però combattere le ire della Chiesa e del suo consigliere padre Gregorio Maria Rocco, che considerava il gioco di sorte “ingannevole ed amorale diletto”, completamente avverso ad ogni insegnamento cattolico. Alla fine re Carlo la spuntò con un escamotage: riuscì a monopolizzare il gioco, ma ne vietò le estrazioni nelle settimane delle sacre festività natalizie per non distogliere i sudditi dai riti religiosi. Privato del suo passatempo preferito, per il periodo del Natale, il popolo si inventò la tombola per continuare a scommettere sui 90 numeri nell’ambito familiare.
Ma perché le istituzioni ecclesiastiche avversavano il gioco del lotto? Già a metà del Cinquecento, in pieno periodo controriformista, iniziò a diffondersi l’idea che ci fosse una particolare affinità tra il lotto, il mondo dei numeri e le anime del Purgatorio, nella blasfema idea che queste ultime concedessero i numeri vincenti, attraverso il sogno, a chi ne fosse devoto (una sorta di do ut des che associava le preghiere ad ambi e terni). Altra figura aborrita dai religiosi era quella “dell’assistito”, un sedicente oracolo che vantava la capacità di ricevere i numeri vincenti direttamente dai morti, dagli angeli o addirittura dai diavoli dell’inferno. Molto spesso i numeri però dovevano essere estrapolati da un gesto, un racconto esposto sibillinamente dal “medium”. Per interpretare in maniera adeguata i segni ed i significati, c’era la Smorfia grazie alla quale tutto ciò che accadeva nella vita, reale o onirica, si poteva mutare in numeri da giocare. La “bibbia dello scommettitore nomata in tal guisa in onore del dio dei sogni Morfeo” (così recita il sottotitolo di un esemplare risalente al 1635 e conservato alla Biblioteca nazionale di Napoli). Altro testo guida dei giocatori era “il libro magico di San Pantaleone” con in appendice “l’interpretazione dei sogni delle sette streghe di Benevento”; si trattava di una sorta di libro di magia che racchiudeva al suo interno riti, formule e pratiche per vincere al lotto.
Inoltre, c’era chi effettuava, nella notte del 24 giugno (festività di san Giovanni Battista), “pratiche magiche” alternative ed estreme, come quella di sottrarre teschi dai camposanti e, usandoli a mo’ di paiolo, vi faceva bollire ceci numerati da 1 a 90, terra funebre e acqua della fontana della “Coccovaja” (la fontana della civetta che si trovava a piazza dell’Olmo, ora spostata in piazza Salvatore Di Giacomo a Posillipo), che era considerata la “fonte degli incanti”. I primi cinque ceci numerati che salivano a galla venivano giocati e la “cinquina era sicura”. Oppure c’era chi cercava, per vincere, un approccio cabalistico studiando le famose “12 tavole” di Rutilio Benincasa, stampate a Napoli nel 1587, un astruso guazzabuglio matematico da cui sarebbe possibile estrapolare i numeri vincenti del lotto attraverso improbabili calcoli …
Una vasta letteratura di saggi dotti e aneddoti esilaranti o truci è stata prodotta attorno al mondo del lotto e il suo rapporto simbiotico con la città di Napoli negli ultimi quattro secoli, che sarebbe qui impossibile citare. In conclusione, mi piace ricordare l’autrice con cui abbiamo aperto quest’articolo, Matilde Serao, la quale, nel racconto “Terno secco”, contrappone due diverse teorie per vincere al lotto: evento fatalistico o calcolo scientifico delle probabilità… insomma, come si dice, “pazzo chi joca e pazzo chi nun joca”.