Quando, nell’estate del 1884, scoppiò l’epidemia di colera a Napoli (che mieté oltre 10.000 vittime in poche settimane), un semplice operaio guadagnava dai 15 ai 20 centesimi di lire all’ora (per una giornata lavorativa di almeno 12 ore), un pezzo di pane costava 24 centesimi e per le strade i pianini ripetevano la canzone “Napulitanata” di Di Giacomo e Costa, vero tormentone di quell’anno. Dal censimento di pochi anni prima (1881) evinciamo che nella sola cinta muraria della ex capitale duosiciliana risiedevano 535mila abitanti con una densità abitativa superiore a quelle di Londra e Parigi, ma con un perimetro cittadino di quasi la metà. Le cause della rapida e devastante diffusione dell’epidemia furono individuate nelle precarie condizioni igienico-sanitarie dei quartieri più popolari e nell’inquinamento della falda acquifera, causato a sua volta da un’insufficiente rete fognaria.
Appena un anno dopo, nel 1885, fu approvata dal Governo Depretis la “legge speciale per il risanamento di Napoli”, un radicale piano urbanistico che prevedeva un letterale sventramento della città, con l’abbattimento e la costruzione (ex novo) di edifici e servizi di intere arterie viarie attraverso i quartieri Mercato, Porto, Pendino e Vicaria, nonché la creazione di due nuove aree residenziali per i meno abbienti, ad est e ad ovest del centro storico (Fuorigrotta e il Vasto). Furono stanziati a tal fine 100milioni di lire. Nei dieci anni di lavoro furono abbattute 170mila abitazioni, 64 chiese, 144 strade e 56 fondaci (unità abitative plurifamiliari ricavate da grotte e spelonche).
Il museo di San Martino fu scelto dallo Stato come luogo deputato a custodire le opere d’arte provenienti dalle chiese oggetto di demolizione. L’allora direttore del Museo, Giulio De Petra, pensò di far commissionare al Ministero della Pubblica Istruzione una serie di dipinti che ricordassero i luoghi e le piazze prima che fossero cancellate dai “picconi risanatori”. Come egli stesso scriveva al direttore del Museo delle Antichità di Napoli, Alberto Aveno: “Solo l’arte avrebbe potuto conservare per sempre la memoria delle piazze e dei vicoli abitati dalla plebe napolitana; memorie di vizi ma anche di virtù e soprattutto di sofferenze secolari” (il “patrimonio culturale immateriale”, insomma). La scelta cadde sul pittore Vincenzo Migliaro, che fu preferito ad altri per il suo stile accurato e la sua attenzione al vero, spinta fino alla cura dei particolari, lontano dalla maniera dei pittori impressionisti, ma pur sempre moderno nella scelta dei tagli di inquadratura.
Migliaro rifiutava i facili espedienti folkloristici dei pittori di vedute suoi contemporanei, ma si legava, anzi ne era attratto, alla realtà della gente minuta, del popolo che si diverte o soffre, vive o lavora. Allievo di Domenico Morelli, non fu, come tanti suoi colleghi (Palizzi, Michetti, Salazar solo per citarne alcuni) l’espressione accademica di una ricca borghesia provinciale trapiantata nella Napoli “fin de siècle”, che guardava a Parigi come modello espressivo, perché, senza l’assillo del guadagno, poteva liberamente sperimentare; Vincenzo è napoletano dei Quartieri spagnoli, figlio di un “cantiniere” e di una ricamatrice, approdò alla pittura accademica passando dal mestiere di decoratore e frequentando le scuole serali. Conosceva il mondo del vicolo e amava la sua città, che stava scomparendo.
Dipinse dal 1888 al 1903 dieci superbe tele (Spiaggia a Santa Lucia, Strada Pennino, Strettola degli Orefici, Piazza Francese, Strada di Porto, Vico Cannucce al Porto e Vico Grotta e Vico Forno a Santa Lucia) che ci restituiscono, con uno sguardo autentico e disincantato, alcuni frammenti della Napoli dei suoi giorni. Anche se godette di fama in vita (vincendo la medaglia d’argento all’esposizione internazionale di Barcellona del 1911), non fu mai ricco e continuò a dipingere la sua città fino alla morte avvenuta nel 1939. La critica contemporanea lo definisce una artista secondario (opinione dal sottoscritto non condivisa) o addirittura una “promessa mancata”.
Sicuramente le promesse mancate furono quelle del “Risanamento” che, partendo con la premessa di essere a vantaggio delle fasce più povere della popolazione, attuò la riqualificazione edilizia con caratteri sicuramente speculativi. Secondo i risultati emersi dall’inchiesta del Commissario Regio Giuseppe Saredo del 1891, fu infatti realizzato solo un quinto di quanto preventivato, spendendo più del doppio di quanto stanziato. Con i 250 milioni investiti (equivalenti a più di un miliardo di euro attuali) si costruì solo una parte delle opere preventivate. Non fu costruita invece nessuna scuola, ospedale o servizio di pubblica utilità come previsto nel progetto. Gli interventi rimasti da realizzare furono appaltati e costruiti con fondi privati con la conseguenza che le case che dovevano essere destinate alle oltre ottantamila persone sradicate dai loro quartieri, furono affittate alla classe Borghese, che poteva permettersi gli affitti esorbitanti di 50 lire mensili. Della massa dolente di sfrattati i più fortunati finirono in periferia, gli altri tornarono ad ammassarsi nei vicoli scampati al piccone o addirittura nelle “grotte dei funari” al Monte Echia. Il risanamento napoletano anticipò tante storture che si riproporranno nei tempi a venire: appalti poco trasparenti, coni d’ombra tra politica e malaffare … tutto ciò sotto il silenzio distratto, a volte addirittura complice, della intellighenzia cittadina … ma questa è un’altra storia.