La missione “Istruzione e ricerca” del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), con uno stanziamento complessivo di 30,88 miliardi di euro, si pone, tra gli altri obiettivi, anche una riforma, implementata dal Ministero dell’Istruzione, mirante ad allineare i curricula degli istituti tecnici e professionali alla domanda di competenze che proviene dal tessuto produttivo del Paese. In particolar modo, orienta il modello di istruzione tecnica e professionale verso l’innovazione introdotta da Industria 4.0, incardinandolo nel rinnovato contesto dell’innovazione digitale. Quindi, una fetta non marginale dei fondi europei del programma Next Generation EU dovrà servire a colmare il deficit di competenze che limita il potenziale di crescita del nostro Paese e la sua capacità di adattamento alle sfide tecnologiche e ambientali e di interazione con il mondo delle imprese.
Sembra, quindi, che questa parte del PNRR sia pienamente pervasa dalla modernità occidentale nella quale una confusa idea di liberalismo ha messo tutto e tutti nello stesso calderone, preoccupandosi solo della distinzione dei ruoli sociali in gran parte determinati dal mercato e dalle sue contorte esigenze. L’attuale società, alla base del modello occidentale, ha la pretesa di integrare tutto l’esistente nella cornice delle sue categorie e modelli che, invece, rappresentano solo un sistema di approssimativa ottimizzazione dell’interscambio e della prestazione economica; un sistema più al servizio dei poteri economico-finanziari che dell’uomo e del suo sviluppo. Un sistema sociale basato sugli scambi economici privilegia come fondamentali le funzioni meccaniche delle persone: conta soltanto che i singoli “consumino” e “funzionino” all’interno del sistema cui appartengono. In un siffatto sistema, congegnato per perseguire fini ben diversi dal conseguimento della cultura, si pretende di controllare e annullare le differenze attraverso la normalizzazione e la giustificazione etica di qualsiasi modus operandi.
Ci sembra, quindi, che una parte dei predetti fondi del programma Next Generation EU sarà impiegata per tenere in vita un sistema di istruzione che fa coincidere gli interessi tecnici con quelli politici, fornendo un’educazione lontana da una cultura seria, gratificante.
Ci chiediamo: un sistema di istruzione funzionale a questo modello di società cosa farà per la cultura della “generazione alfa”? come la proteggerà dall’ignoranza? E, si badi, mi riferisco non all’ignoranza naturale, congenita all’esistenza umana (tutti “non sappiamo”, perciò Socrate disse che è saggezza il sapere di non sapere), ma alla pericolosa ignoranza di chi non vuol sapere e fa di tutto per evitare ogni conoscenza. Proprio per evitare che tutto venga deciso da chi detiene le leve del comando, bisogna contrastare l’identificazione tra trionfo della burocrazia, dominio dell’ignoranza e democrazia.
Quella che si trova in pericolo non è la ragione della tecnica, innocua per chi detiene il potere, quanto la ragione dialettico/discorsiva: democrazia, libertà, pensiero critico sono termini correlati tra loro più di quanto l’uomo medio non riesca a immaginare e quanto più ci allontaniamo da essi tanto più abdichiamo alla specificità della nostra umanità. Il pensiero non sembra più avere alcuna realtà sostanziale al di là delle scarne applicazioni nell’ambito della tecnica o dell’economia, ossia al di là dei suoi rapporti con la politica e il potere.
Il grado di mercificazione della cultura ha raggiunto livelli ragguardevoli; chiedetevi, per esempio: quanti di coloro che conosco scelgono una telenovela o un quiz piuttosto che la lettura di Eschilo o Plauto, quanti preferiscono il lotto alla dama o agli scacchi? Se la qualità dei discorsi si è abbassata, ciò dipende dall’abbassamento del livello della cultura che, invece, dovrebbe sostenere ogni argomentazione e trasparire dalle parole di quelli che orientano la società.
Quando, negli anni della contestazione del ‘68, riecheggiava lo slogan “la fantasia al potere”, si intendeva che il controllo della società avrebbe dovuto essere nelle mani di quelli capaci di trovare possibili alternative e non di coloro che si limitavano a “manutenere” l’esistente.
Considerata la brevità della vita umana rispetto alle cose da conoscere, si comprende come una cultura seria dovrebbe aiutare a minimizzare lo spreco di energie e tempo: un libro che vale la pena leggere è un’opera dopo la cui lettura non saremo più gli stessi. Come non ricordare il monito contenuto nell’Apologia di Socrate: «una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta».
Ricordare i buoni libri e le persone sagge che li scrissero aiuta ad orientarsi nel mondo: in un certo qual modo è consolante sapere che qualcuno, in un tempo e in un luogo magari lontani da noi, ha fatto, pensato e scritto cose intelligenti, meritevoli di esser ricordate.
Come ha scritto il filosofo e musicologo Vladimir Jankélévitch, «si può vivere senza filosofia, senza musica, senza gioia e senza amore. Ma mica tanto bene.»
Condivido pienamente. Gli obiettivi posti dal piano sulla formazione hanno il fiato corto oltre che uno sguardo sbilenco per carenza di memoria e subordinazione alla visione liberista messa in risalto nell’articolo. Viene riproposta la solita contrapposizione tra discipline tecnico scientifiche e discipline umanistiche senza nessuna originalità. Questo è un errore già commesso in passato e ancora ne scontiamo i limiti. Tant’è che quando gli studenti diplomati vogliono accedere ai corsi di studio a numero chiuso si trovano a dovere affrontare problematiche che richiedono al candidato capacità critiche che la scuola non sempre è in grado di offrire. E allora se vengono richieste certe qualità, ragionare in forma corretta, saper argomentare evitando errori nel trarre conclusioni, saper fare analogie interpretare dati e rappresentazioni grafiche, tutte queste competenze fanno riemergere l’importanza delle scienze umanistiche, dotate anch’esse di un apparato e strumentazione tecnica che si impara come si impara il far di conto. Ci si dimentica che i filosofi erano matematici, e purtroppo a dimenticarlo sono spesso proprio i filosofi.
A sostegno della riflessione di Achille Aveta pongo all’attenzione dei lettori un libro dal titolo: “Le scienze dimenticate. Come le discipline umanistiche hanno cambiato il mondo” di Rens Bod