Maggio se ne va
Nuje ca cercammo Dio
Stammo pè sempe annure
Nuje ca cercammo ‘o bbene
Nun simmo maje sicuri
E nun c’abbasta niente
E cchiù n’amma sapè
Nun simmo maje cuntenti
E intanto maggio se ne va
Ce resta ‘o friddo
Ma quaccosa è allero
Maggio se ne va
Avanza ‘o pede
I versi di questa canzone sembrano ancora echeggiare nelle piazzette e nei vicoli dove nacque e visse la sua giovinezza Pino Daniele. Accompagnati dalle immaginarie note blues sarà bello perdersi ai Banchi Nuovi, a due passi da “Spaccanapoli”, per poi ritrovarsi arricchiti dalle sensazioni generate dalla bellezza decadente (e forse un po’ degradata) di questo pezzo di centro storico ancora non contaminato del tutto da negozietti di fast food e “kebabbari”.
Protetta dalla murazione angioina, questa zona sorse tra le due insule francescane di Santa Maria la Nova e Santa Chiara e fu chiamata dei “segatori” in quanto, essendo ricca di boschi, molti erano i taglialegna e i falegnami che vi abitavano, creando un piccolo borgo. Sempre sotto la dominazione angioina sorsero sul posto numerosi edifici di culto (Santa Maria Donnalbina, San Demetrio, Santa Maria dell’Aiuto). Il toponimo “banchi nuovi” lo dobbiamo all’installazione dei nuovi mercati delle sete e dei broccati in epoca vicereale. Il vecchio mercato si trovava in Piazza dell’Olmo e fu spazzato via dalle cannonate che il viceré fece sparare sulla folla durante l’insurrezione popolare del 1567.
Nel 1569 i mercanti catalani, fiorentini e genovesi acquistarono, ad un prezzo vantaggioso, le proprietà del convento di san Demetrio (distrutto da un’alluvione) e costruirono le loro botteghe e la loro loggia di rappresentanza nella piazza che prese da allora il nome di “banchi nuovi”. L’intera area è ricca di siti storici d’interesse, dalla chiesa di San Giovanni Maggiore (costruita sulle rovine del tempio romano dedicato ad Antinoo) a palazzo Giusso (attuale sede dell’Istituto Universitario Orientale), dalla cappella dei Pappacoda, al convento di Santa Maria la Nova (che ospiterebbe nel chiostro, secondo il ricercatore Giuseppe Reale, la tomba del conte Vlad Tepes III, meglio noto come Dracula).
Un edificio su tutti però merita particolare attenzione: Palazzo Penne: progettato dal celebre artista Antonio Baboccio da Piperno, fu costruito nel tardo XIV secolo ed è l’unica testimonianza di architettura civile angioina che ci è rimasta. L’imponente facciata fonde elementi rinascimentali tipicamente toscani (il bugnato a forma di piramide tronca) con elementi tardogotici (l’arco dell’ingresso ad ogiva ribassata e le modanature trilobate del timpano). In entrambi gli angoli superiori sono posti gli stemmi della famiglia Penne, mentre al centro sono scolpite a rilievo alcune figure in stile tardogotico. Sempre in facciata, è presente un’iscrizione in latino contro gli invidiosi che recita: “tu che giri la testa, o invidioso, e non guardi volentieri questo palazzo, possa di tutti essere invidioso, nessuno lo è di te”.
Antonio Penne fu dignitario della corte di re Ladislao di Durazzo, stimatissimo dal sovrano tanto da avere l’onore di essere seppellito nella basilica di Santa Chiara, chiesa mausoleo della dinastia angioina. L’imponente palazzo, che all’epoca della costruzione si estendeva con loggiati e giardini fino ad un colonnato che si affacciava sul mare (la linea di costa allora lambiva l’attuale piazza Borsa e fu avanzata solo in periodo aragonese), colpì talmente l’immaginazione dei contemporanei da far pensare che fosse opera del diavolo. Nel racconto dal titolo “Lu cunto d’o palazzo ‘e Bbelzebù” tratto dall’opera “Leggende e racconti popolari di Napoli”, la storiografa Angela Matassa riporta la seguente leggenda: Antonio Penne s’innamorò di una bellissima dama di corte che, per sposarlo, gli chiese di costruire un palazzo in una sola notte. Il dignitario, per niente intimorito dall’assurda pretesa della dama, evocò Belzebù e gli chiese aiuto: in cambio della costruzione del palazzo egli avrebbe concesso la sua anima immortale. Il patto, scritto e suggellato col sangue, conteneva una clausola inserita dal Penne: la sua anima sarebbe stata resa al diavolo solo a patto che, a costruzione ultimata, Belzebù sarebbe stato capace di contare precisamente quanti chicchi di grano il dignitario avrebbe sparso nel cortile. Eretto il palazzo, il diavolo contò in pochi minuti i semi ma il numero che diede al Penne era inferiore di cinque chicchi. L’astuto dignitario aveva ingannato Belzebù spargendo insieme al grano della pece che, incollatasi con alcuni chicchi sotto gli artigli del diavolo, gli aveva fatto sbagliare il conteggio. Quando Belzebù (povero diavolo!) protestò per l’inganno, Antonio Penne si fece il segno della croce e sotto i piedi del demonio si aprì una voragine facendolo sprofondare all’inferno. La profonda buca fu coperta da un pozzo che è ancora visibile nel cortile.
Tornando alla triste realtà contemporanea, Palazzo Penne, rimaneggiato nei secoli, stava per diventare nel 2002 un bed and breakfast. Acquistato dalla Regione Campania fu poi ceduto in comodato d’uso nel 2004 all’Università Orientale per farne un polo di cultura d’eccellenza. I lavori per il recupero dell’edificio, tuttavia, non furono mai avviati. Dopo varie inchieste giudiziarie promosse dall’UNESCO, che hanno visto indagati la Regione e l’Orientale per “danneggiamento di un manufatto storico”, risoltesi senza alcuna condanna, il Comune di Napoli ha varato un piano di 10 milioni di euro per la ristrutturazione di Palazzo Penne. Il fumoso progetto prevede come destinazione d’uso la creazione di uno spazio intitolato “Casa dell’Architettura e del Design”.
Vorrei chiudere con un sogno personale, citando i versi di un’altra canzone di Pino Daniele:
Puorteme a casa mia
addo’ cresce tutte cose
senza parla’.
Puorteme a casa mia
nun me fa’ cchiù gira’
Puorteme a casa mia
addo’ chi cade ‘nterra
se sape aiza’.
Il mio sogno è quello di far ritornare Pino Daniele a casa sua, nella sua Napoli, nel suo quartiere, a Palazzo Penne. Forse De Magistris, sindaco non particolarmente amato dai napoletani non vomeresi, potrebbe riconciliarsi con il resto dei cittadini, prima del suo addio verso altri lidi, destinando Palazzo Penne a divenire il museo della Musica, della Canzone e della Cultura Napoletana. Forse sarebbe possibile ospitarne l’urna di Pino, adesso nel cimitero di Magliano in Toscana, in attesa di tornare.
Troppi sogni e una speranza …