All’inizio di Corso Umberto I, inglobata in un palazzone di fine Ottocento, si trova una delle più importanti chiese napoletane. Importante non solo per le splendide opere che custodisce all’interno, ma soprattutto perché conserva un altare dove san Pietro Apostolo, fermatosi a Napoli nel suo viaggio verso Roma, avrebbe celebrato la prima messa sul suolo occidentale. Si tratta della Basilica di San Pietro ad Aram.
Il canonico Celano, storico del Seicento, racconta nella sua opera “Notizie del bello dell’antico e del curioso della città di Napoli” che nel XVI secolo il Pontefice Clemente VII, per la particolare antichità della Basilica e per l’antico culto petrino, concesse il privilegio di celebrarvi il Giubileo. L’attuale composizione della chiesa è dovuta alle ristrutturazioni del 1650, ma le origini della struttura sono molto più antiche. Secondo la tradizione la chiesa dovrebbe risalire al 44 dopo Cristo, in concomitanza col passaggio di San Pietro, mentre altre fonti la fanno risalire all’anno 877 dopo Cristo, quando già esisteva una cappella che contornava e custodiva l’altare dove Pietro battezzò i primi due santi napoletani (Aspreno e Candida la vecchia). L’edificio fu ampliato sia in epoca angioina che aragonese e fu fornito di due Chiostri (distrutti durante i lavori del risanamento nel 1884). Sant’ Aspreno fu il primo vescovo e, dopo la sua morte, il primo patrono dei napoletani. Una particolare reliquia (una lastra di pietra forata del suo altare), che si riteneva guarisse dal mal di testa, era molto venerata. Nel 1899, quando Bayer creò il potente farmaco oggi noto come Aspirina, forse si ispirò al nome del santo napoletano che scacciava l’emicrania.
La scoperta delle reliquie di Santa Candida avvenne invece per caso nel 1709. I padri lateranensi, ai quali era affidata la chiesa di San Pietro ad Aram, durante un lavoro di ristrutturazione della navata sinistra, scoprirono una botola che si apriva su dei vasti ambienti sotterranei. Dopo un lavoro di scavo portarono alla luce un pozzo per l’acqua di epoca romana, un vasto locale colonnato (identificato nel 1934 come edificio di culto paleocristiano, costruito sotto “l’ara Petri”) e degli ambienti che ospitavano i resti mortali di sette persone. Insieme alle ossa rinvennero un corredo funebre formato da poche scodelle ed offerte votive, su cui erano incisi simboli cristiani. Il ritrovamento fece tanto clamore che la basilica fu inserita nel novero delle chiese in cui praticare la devozione alle “anime pezzentelle”(così chiamate dai napoletani). Le altre erano Sant’Agostino alla Zecca, Santa Croce al Mercato, Santa Luciella e Santa Maria del Purgatorio ad Arco, nonché il più celebre cimitero delle Fontanelle.
La dottrina del Purgatorio venne definita dalla Chiesa nel secondo Concilio di Lione del 1274. Il dogma stabiliva che l’anima defunta, se pentita ma non ancora riconciliata con Dio, era obbligata al passaggio in un luogo metafisico di purificazione prima dell’ingresso nel regno dei cieli. La purificazione avveniva tramite “la pena del fuoco”. Solo le preghiere e le messe in suffragio per le anime potevano accorciare il periodo di permanenza in questo limbo. Il lunedì fu scelto come giorno da dedicare a questa devozione.
Nel meridione d’Italia, ma soprattutto a Napoli, la nuova dottrina trovò terreno fertile, in quanto la venerazione dei defunti aveva già origini antichissime. In epoca greco-latina, i culti in onore di “Ecate psicopompa”, la divinità capace di mettere in comunicazione i vivi e i morti, si celebravano di lunedì nell’area funeraria posta nel vallone degli Eunostidi (attuale borgo dei Vergini). L’aggettivo “pezzentelle”, inteso come povere oppure senza parenti, deriva invece dal verbo latino “petere”, cioè chiedere, impetrare. Anche il termine “refrisco”, che i napoletani riconoscevano come una preghiera o un atto in grado di “rinfrescare” l’anima purgante avvolta altrimenti nelle fiamme, deriva dal nome della cerimonia funebre latina del “refrigerium”, cioè il banchetto che si teneva sulla tomba del trapassato (e che oggi definiremmo un rinfresco).
Roberto De Simone, in un lavoro di ricerca sulle tradizioni popolari legate ai luoghi dove si praticava il culto delle “anime pezzentelle”, ha ritrovato le identità affibbiate nei secoli dal popolo napoletano alle “capuzzelle” più celebri. I teschi venerati nella chiesa “‘e ll’aneme ‘o Priatorio” (così la gente ha sempre definito la Basilica di San Pietro ad Aram) sarebbero appartenuti a “Candida ‘a lavannara”, alla “monaca Lucrezia”, a “Lucia ‘a zengarella”, al “pescatore dai capelli rossi”, a due giudici, un dottore, marinai, soldati, ai due giovani carabinieri “Marittiello e Gennariello”, nonché alla famosa avvelenatrice secentesca “Marianna ‘a purpettara”, l’ostessa che andava in sogno ai mariti infedeli punendoli con coliche e “male ‘e panza”. Da queste entità ogni classe sociale si sentiva rappresentata e ad ognuna di loro ci si rivolgeva per particolari “grazie”, come nelle immagini primordiali dell’inconscio collettivo della “teoria degli archetipi”. La dedizione all’anima incorporata (o materializzata) nella capuzzella faceva sperare in una ricompensa, perché nelle richieste c’era fondamentalmente il desiderio di poter vivere una vita normale, dove le fasi più importanti dell’esistenza fossero rispettate. Trovare l’amore, quindi, un lavoro per sostenere dignitosamente la famiglia, avere dei figli, essere in salute. Nelle anime si riponeva la speranza del cambiamento, ed in questa speranza i devoti trovavano conforto.
Questo culto fu vietato nel 1969 dall’allora Cardinale della Diocesi di Napoli, Corrado Ursi, che vedeva in queste manifestazioni “superstizione e paganesimo”. In realtà la devozione non si interruppe mai e, anche se le catacombe furono chiuse per un periodo e le nicchie che ospitavano i resti dei defunti furono coperte da squallidi pannelli in formica, lo slancio della pietas rimase immutato e ogni lunedì le persone continuarono a recarvisi per una preghiera.
Un progetto del 2015, finanziato coi fondi UNESCO, prevede la costituzione di uno spazio interattivo all’interno delle catacombe della Basilica che, restaurate e musealizzate, saranno restituite alla città. Attualmente, il complesso monumentale ha recuperato i piani superiori del convento ed ospita al suo interno persone in difficoltà con un progetto di accoglienza denominato “Casa San Pietro”. Si tratta di un’ottima iniziativa di chi ha capito che solo attraverso la valorizzazione del suo passato e attraverso uno sforzo di solidarietà Napoli potrà avere un futuro.