A un certo punto un’esplosione di gioia incontrollata e frenetica. Ero a piazza del Gesù all’altezza del liceo Genovesi. Ragazzi e ragazze in festa ― una festa chiassosa e debordante ― annunciavano, felici del loro futuro prossimo, la chiusura delle scuole. Di ogni ordine e grado, come si dice. Quasi non sembrava loro vero! Erano finalmente liberi di potere organizzare il proprio tempo senza che quegli insopportabili scocciatori dei prof lo portassero loro via. Niente scuola, viva la libertà!
Non ricordo la mia prima reazione. Probabilmente sorrisi. Con i nostri ragazzi, almeno per me, è sempre così. O quasi. Sono, in tante occasioni, di un’ingenuità disarmante, di una gaiezza coinvolgente, di una spensieratezza amabilmente superficiale, che non puoi fare altro che sorridere. Con loro. Per loro. Questo, naturalmente, non vuole assolutamente dire che i miei alunni non mi facciano incazzare. Altro che. Non solo quando non studiano come dovrebbero o, semplicemente, non studiano affatto. Ma pure, direi soprattutto, quando si rifiutano di crescere, di accettare cioè la responsabilità del proprio futuro.
Con le scuole chiuse si presentò il problema di cosa diavolo fare. I ragazzi non volevano fare nulla ― per la verità, anche qualche collega non aveva nessuna intenzione di mettersi a lavorare: le scuole le aveva chiuse il Governo, che colpa tenevano gli insegnanti? ― quando, improvvisa e temuta, arrivò la DaD: la Didattica a Distanza. Con un computer, un telefonino cellulare, un iPhone, un tablet ovvero con qualche altro marchingegno ancora, si poteva, e si doveva, continuare a fare lezione. Così che in questo nostro amato e strano Paese, mentre le scuole cercavano soluzioni ragionevoli e possibili, nonché serie e condivise, per affrontare un problema nuovo ed epocale, la pandemia da Sars Covid 19 ― a volere essere pignoli a qualunque costo: una delle più gravi conseguenze della pandemia ― in tanti hanno cominciato ad ululare come randagi rabbiosi contro l’insopportabile, e non più accettabile, privilegio degli statali, in questo caso dei professori della scuola pubblica, che se ne stavano comodamente a casa a rubare lo stipendio. Uno stipendio che, pandemia o non pandemia, sarebbe arrivato. Come al solito. Tutti gli altri, per contro, avrebbero pagato lo scotto di una chiusura generalizzata e severa dell’Italia intera. Ivi compresi, mi permetto aggiungere, quelli che per anni hanno dichiarato profitti da fame, inferiori in tanti casi ai corrispettivi dei loro dipendenti. I quali, per la verità, è d’uopo non dimenticarlo, non hanno le spese di una barca a mare o di una casa in montagna. Sono cose che costano, si sa.
Il fatto irritante, per molti versi, e divertente, per altri, è che mentre i prof si davano da fare, i signori che lavorano, e solo loro lo fanno e lo sanno fare, se ne stavano a non fare nulla, se non a chiedere ristori, cioè i dané, in quantità che ― come ti sbagli? ― non tenessero conto delle loro dichiarazioni dei redditi.
E qui le comiche: che è ‘sta storia che vuoi rimborsarmi in proporzione di quanto ho dichiarato? Cose da pazzi! Che fai, tu Stato, mi credi? Nemmeno nei loro incubi peggiori avrebbero potuto immaginare, gli unici faticatori dell’universo mondo, che lo Stato italiano avrebbe creduto alle loro dichiarazioni dei redditi e si sarebbe comportato di conseguenza: una cosa inaudita! Nemmeno i costi per le amanti sono stati loro riconosciuti, e certo non potevano metterli, non chiaramente almeno, nelle spese. Però, che diamine! Chi lavora, e che onestamente contribuisce alla vita economica, finanziaria e sociale di tutti noi, ha diritto a un di più di considerazione. Almeno gli amanti. O no? No. Direi proprio, e decisamente, no.
Mentre l’odio montava se c’era, c’è stato chi ha cercato da subito una soluzione, chi non ha voluto lasciare da soli i propri alunni e le loro famiglie, questi sono stati i prof, cioè la scuola. Quella pubblica. Con decisione volitiva, siamo entrati nelle loro case e, spero, ancora di più nei loro cuori.
Il “motore primo” della DaD erano chiaramente le video lezioni. E subito si pose il problema: su quale piattaforma? Ci siamo industriati e abbiamo cominciato con una piattaforma di origini cinesi, mi hanno assicurato. Non era male, devo dire la verità. Si riusciva ad usarla con buona manualità e risultati accettabili: la presentazione di slide, documenti, filmati, l’utilizzo della lavagna per esemplificazioni ed esercitazioni, in definitiva la gestione del layout dello schermo, era abbastanza semplice e intuitiva. Da quello che so, all’inizio, eravamo in parecchi su questa piattaforma. Noi fino a quando, come altri, non abbiamo subito un attacco informatico. A quel punto è successo un pandemonio e i ragazzi, i miei, in particolare le ragazze, si sono decisamente ribellati.
E meno male che avevamo chiesto e ottenuto dai loro genitori autorizzazione scritta a che potessimo avviare le video lezioni. Non voglio tediarvi con la scelta del giusto modello e le opportune frasi per chiedere detta autorizzazione. In questi casi i prof danno il peggio di loro stessi diventando tutti degli aggressivi e puntigliosi legulei, di un’ignoranza nella maggioranza dei casi, a denominazione d’origine certificata. Non so quante riunioni e discussioni on line, alle ore e nei momenti più variegati, in alcune occasioni decisamente inopportuni, per decidere di quel modello. Dopo avere deciso ― come ti sbagli? ― qualcuno lo ha di nuovo modificato, perché non soddisfaceva completamente la sua sensibilità di giurista pur insegnando, questo qualcuno, magari “Scienze motorie”.
Ritorno all’attacco. Tutti a cambiare password, a installare codici di accesso a doppio controllo, che ancora adesso non so cosa significhi, ad attivare avvisi in tempo reale di accessi non autorizzati. Perché Instagram c’è.
Continua …
si in effetti è così, soprattutto nel precedente anno scolastico eravamo tutti smarriti, ognuno, tra noi docenti, si è arrangiato alla meno peggio, con i propri mezzi abbiamo organizzato video lezioni, file audio, power point, perché la scuola non poteva e non doveva fermarsi.
Poi sono arrivate le piattaforme teams, g-suite,…e io personalmente ho dovuto acquistare un nuovo pc, di tasca mia perché docente precaria, in quanto il vecchio non supportava tali piattaforme.
Quest’anno siamo partiti con l’entusiasmo e l’emozione del primo giorno di scuola, un primo giorno che è durato circa due mesi e poi di nuovo didattica a distanza, anzi integrata come è stata soprannominata.
Ma la scuola non ha mai chiuso e noi docenti sempre pronti e disponibili in qualsiasi orario, gli studenti si sono sentiti in diritto di comunicare con te a qualsiasi ora, io ho ricevuto email e whatsapp anche a mezzanotte, ti chiedevano spiegazioni su di un esercizio non riuscito o non capito.
Noi siamo entrati, con il loro permesso, nelle loro case attraverso uno schermo, ma anche le nostre si sono aperte e nessuno ci ha chiesto permesso, e non solo quelle, le nostre vite si sono completamente plasmate sulla nostra professione(missione).
Tutti, radio, televisione, “gente comune”, si sono sentiti obbligati a criticare la didattica digitale, ma non dimentichiamo che è stata ed è una opportunità, immaginiamo se tutto ciò fosse successo appena 15 anni fa, allora si che la scuola avrebbe chiuso le proprie porte e non solo fisicamente.
Io ho vissuto il terremoto del 1980, a Napoli, e ricordo che frequentavo il secondo anno del liceo scientifico, siamo stati lasciati a casa un paio di mesi, quelle conoscenze e competenze mai più recuperate, nessuno si pose il problema della mancanza di relazioni con i nostri compagni e con i nostri insegnanti, non era una pandemia ma un fenomeno locale e soprattutto non eri costretti a chiuderti in casa. La socialità che oggi è venuta a mancare non è legata solo alla non presenza fisica in classe, ma anche alla non opportunità di frequentare chiunque che non fosse del tuo contenitore familiare.
Concludo dicendo che quello degli insegnanti non è uno stipendio rubato, siamo stati e siamo in prima linea, al pari, forse, dei sanitari, ma il loro stipendio nessuno lo ha messo in discussione.
Si poteva fare meglio? Sicuramente, ma è l’esperienza che aguzza l’ ingegno.