Ogni fiaba inizia sempre con questa espressione: “C’era una volta”, utilizzata per narrare storie che quasi sempre hanno un lieto fine, un insegnamento da lasciarci in dono. Questa volta purtroppo parlando di football c’è solo un ricordo di quello che è stato, il finale lieto all’orizzonte sembra non esserci.
Nelle ultime ore è successo di tutto nel mondo del calcio, tra le 12 squadre scissioniste, City, Chelsea, Arsenal e Atletico stanno abbandonando l’idea di partecipare alla Superlega, il tutto grazie a forti pressioni politiche e alla pronta risposta del tifo organizzato. Il primo dietrofront sembra sgretolare l’idea. Intanto il Ceo del Manchester United si dimette. In questi due giorni cariche importanti sono scese in campo per frenare l’ascesa del nuovo disegno di calcio. Boris Johnson, Mario Draghi, Macron, ma anche Pep Guardiola, Josè Mourinho e tantissimi altri. Dalla politica al calcio, tutti all’unanimità hanno condannato l’idea della nascita della Super League, una competizione privata. La divisione tra il vecchio e il nuovo calcio è tangibile nelle parole di Aleksander Ceferin, che ha accolto con entusiasmo l’uscita del Manchester City dalla Superlega: “Sono felice di dare il bentornato al Manchester City nella famiglia del calcio europeo”. Come a voler perdonare un figlio che ha fatto una marachella. Questi dodici paperoni aiutati dalla scusa della pandemia in quest’anno si sono visti dimezzare le entrate dei club, che si sono aggrappati unicamente alle televisioni; pur di salvare i loro interessi hanno immaginato una competizione con partite più competitive, o più attraenti come definite da Pèrez, e nel contempo immaginare di stravolgere e lasciar fuori tutto il resto. In realtà dietro la pandemia ci sono le colpe dei Club aiutati dalla miopia della UEFA, che ha permesso una ricca mangiatoia come se non ci fosse un domani. Il risultato è stato un indebitamento di massa, di quelli che si definiscono blasonati, ma che nella sostanza passano dai palmares alle cambiali. Ma ripercorriamo quanto accaduto.
Un po’ come quando da bambini c’era qualcuno che, a partita in corso, stringendo il pallone sotto al braccio tornava a casa. Sembra più o meno questa la scena dinnanzi alla comunicazione di una competizione privata con 20 squadre. La nascita della Superlega, la Super League, che si supponeva in vigore da agosto 2022. Le dodici squadre che hanno dato il via a quello che voleva essere il calcio 2.0 sono: Manchester United, Manchester City, Liverpool, Arsenal, Chelsea, Tottenham, Barcellona, Real Madrid, Atletico Madrid, Juventus, Inter, Milan. Il format prevedeva 20 squadre, tra cui 15 club fondatori e altri cinque con un accesso a rotazione in base ai risultati sportivi.
Come si evince dal sito già online della Superlega: “La pandemia ha evidenziato la necessità di una visione strategica e di un approccio sostenibile dal punto di vista commerciale per accrescere valore e sostegno a beneficio dell’intera piramide calcistica europea”. In che modo questi club vogliano accrescere valore all’intera piramide calcistica europea resta ancora un mistero, anche perché una competizione privata è quanto di più anti-sportivo esista. Le ragioni infatti vanno ricercate nell’unico non-valore sportivo ovvero il vile danaro. Le 12 scissioniste mirano, o meglio dire miravano, ad abbattere quello che è il monopolio economico UEFA per accedere direttamente agli introiti. I grandi club in sostanza vogliono gestire direttamente gli incassi di sponsor e diritti televisivi senza nessun intermediario. L’appeal della nuova competizione infatti girava intorno a cifre clamorose: 3,5 miliardi come gettone d’entrata, con gli incassi dei diritti tv che si aggirano intorno ai 4 miliardi l’anno da dividere per ogni partecipante. Si stima che un club possa incassare fino a 350 milioni a stagione. Gli autoproclamati grandi club, pur di non annegare nei loro debiti, volevano trascinare a fondo l’intero sistema calcio. Ciò che esce clamorosamente dai binari è il discorso puramente sportivo. In questa competizione non ci sono squadre retrocesse, quasi come se a perdere non fosse nessuno, non c’è nessuna paura da ultima in classifica, in quanto se sei una delle 15 squadre fondatrici non hai da sudare la maglia, il posto è assegnato per diritto divino.
Le reazioni di Uefa e Fifa sono state durissime: “Fermeremo questo cinico progetto. Considereremo tutte le misure, a tutti i livelli, sia giudiziario che sportivo. Chi entra in Superlega sarà escluso da tutto”, così un comunicato della UEFA. I vertici dell’organizzazione hanno minacciato infatti cause legali da 50 miliardi di dollari, ma anche di espellere dai tornei nazionali e dalle coppe chi aderirà alla Superlega, di vietare ai calciatori impegnati di giocare con le Nazionali. In questo scontro tra titani però non ci sono buoni che giocano a favore del football e soprattutto la favola della passione e del merito, sbandierata dalla UEFA, non regge. Se è verissimo che la creazione di questa superlega sia distante anni luce da tutti i principi dello sport, è altrettanto vero che la Uefa negli ultimi anni si è impegnata ad inimicarsi i grandi paperoni dei club più blasonati al mondo. Anni di irrisori fair play finanziari hanno permesso alle società mai multate di accumulare debiti su debiti. Negli ultimi 10 anni abbiamo assistito allo scempio totale con giocatori pagati 131 milioni l’anno, come Lionel Messi, 118 milioni a Ronaldo, 95 milioni a Neymar, prezzi che potremmo definire immorali. A causa della pandemia, le preannunciate riduzioni dei proventi per le prossime competizioni da parte della Uefa hanno fatto storcere il naso ai big club, che nelle vesti di Agnelli e Perèz hanno attuato il golpe all’interno del campo da gioco. In questa lotta tra paperoni la nuova figura economica è costituita dalla JP Morgan che nel 2000 si è fusa con la Chase Manhattan Bank, ad oggi la più grande banca al mondo con una capitalizzazione di mercato di oltre 420 miliardi di dollari. Insomma il calcio perde definitivamente la sua funzione sociale per passare come una palla nelle mani di paperoni e multinazionali, ma a perdere questa volta sono miliardi di perone. La nuova lega alla lontana si ispira (male) all’NBA, mettendoci dinnanzi al fatto che il modello di business nordamericano ancora una volta infetta l’Europa e a farne le spese sono anche i valori culturali e le tradizioni.
Di popolare in questa storia c’è ben poco se non le reazioni collettive di smarrimento e delusione, insieme alle immagini dei primi tifosi che accorrono fuori agli stadi per appendere uno striscione di contestazione nei confronti di quanto partorito. Nell’era del covid-19, nel periodo di maggiori stravolgimenti sociali e di rottura con il passato, anche il calcio perde la sua autenticità, da sport a business, il passaggio definitivo sembra oramai attuato. Nello scontro tra il vecchio e il nuovo, nella guerra tra le élite, a restare con il fiato sospeso sono i miliardi di appassionati di questo sport, dai bambini delle favelas brasiliane ai campi sgangherati delle periferie argentine, dalle porte abbozzate con qualche ciabatta nelle città africane alle partite giocate per le strade di Napoli, sarebbe utile scindere i due sport, perché nell’intento di creare un calcio d’élite andrebbe preservato ora più che mai quello reale e autentico a cui siamo ancora attaccati.
Il nuovo calcio manovrato dalla finanza prevedeva già uno stravolgimento epocale: partite più corte, arbitri dotati di microfono per comunicare alla platea le spiegazioni in tempo reale. Inutile sottolineare come questo “colpo di stato” sia stato attuato machiavellicamente ora che i tifosi non riempiono le gradinate, ora che gli stadi sono vuoti e nessuno è li ad esprimere la propria disapprovazione. Una mossa che silenzia il malcontento generale, uno scacco matto che non prende minimamente in considerazione il giocatore numero uno senza il quale il calcio non sarebbe nulla: il tifoso!
Quello del calcio vetrina è un processo che va avanti da anni e non nasce di certo oggi con la notizia della Superlega. Lo sport più popolare e praticato al mondo vive da anni agonizzante, spodestato dagli sponsor, dalla corsa ai diritti tv, dagli orari improponibili e con partite giocate durante la settimana e impossibili da seguire. Dalla criminalizzazione del tifo organizzato all’aumento del costo dei tickets, dalle trasferte vietate ai problemi di ordine pubblico. Il tempio di questo sport, lo stadio, si è repentinamente svuotato negli anni, per favorire la digitalizzazione anche del tifo. Ed è così che oggi 12 società si azzardano a fare i conti senza l’oste, disegnando un nuovo calcio senza il dodicesimo uomo in campo. Un gioco che è stato lentamente venduto perdendo forse quella componente più grezza, più vera nel contenuto e meno nella forma, perché è in quelle partite più sofferte e meno spettacolari che esce fuori il bello dell’imprevisto, tutto è possibile perché la sfera è rotonda. La ricerca della perfezione ci impone oggi di vivere un’epoca in cui il calcio sembra essere giocato da macchine piuttosto che da giovani atleti che inseguono un pallone. E così, mentre pochi club pensano di risanare i loro debiti alla luce del sole, il resto del mondo, quello che vive di emozioni, si augura di ritrovare quella socialità che solo un gioco come il calcio può creare. Sarebbe oggi curioso ascoltare il parere di Diego Armando Maradona sulle vicende che riguardano UEFA e i 12 club scissionisti. Lui che di peli sulla lingua non ne ha mai avuti avrebbe probabilmente affermato: la pelota no se mancha (il pallone non si macchia).