“Uno scandalo è l’effetto di un’azione che, una volta divenuta di pubblico dominio, causa un turbamento della sensibilità morale pubblica, prevalentemente in materia di sesso, denaro ed esercizio del potere”. Questa definizione calza perfettamente alla vicenda di Suor Giulia e “la congregazione della carità carnale“. Una storia che potrebbe essere il soggetto di un romanzo, se non fosse tragicamente vera. L’epoca in cui si dipanano i fatti sono i primi decenni del 1600 nella “religiosissima e bigotta” Napoli vicereale. Nella città di allora si contavano 504 chiese, 150 monasteri e diverse migliaia di religiosi. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che una terziaria francescana, di umile estrazione sociale, avrebbe attirato l’attenzione dell’Inquisizione e dato origine ad uno scandalo che travolse la corte vicereale e la curia papale. Gli atti processuali del Santo Uffizio, ma soprattutto una cronaca coeva scritta da un frate teatino, tale Valerio Pagano, ci raccontano le circostanze.
Suor Giulia, al secolo Giulia De Marco, nacque a Sepino in Molise nel 1574 da una famiglia di origine contadina. Morto suo padre, quado aveva 12 anni, si trasferì a Campobasso per fare l’inserviente presso una famiglia di mercanti. Dopo pochi anni si stabilì a Napoli con la stessa famiglia. A causa di una relazione finita male con un servo, diede alla luce un figlio, che fu costretta ad abbandonare presso l’orfanotrofio della Santissima Annunziata.
Questa traumatica esperienza la avvicinò alla religione, tanto da farle desiderare di divenire “sposa di Cristo”. Non avendo né i mezzi economici né la preparazione culturale per essere ammessa in un convento, decise di vestire l’abito del Terzo Ordine di San Francesco d’Assisi, dividendo la sua nuova vita tra preghiere, digiuni e opere di assistenza. La cronaca ci racconta che suor Giulia incominciò ad avere “visioni celesti, doni di preveggenza nonché poteri taumaturgici“, che accrebbero la sua fama di “santità” non solo presso il popolino ma anche presso l’aristocrazia cittadina. Il suo fervore religioso ammaliò il viceré, conte di Lemos, e più volte fu introdotta a corte. La sua “aura mistica” la fece diventare in poco tempo una delle donne più influenti del vicereame; per tutti ormai non era più suor Giulia ma “la madre“.
Sotto l’egida dell’Ordine francescano. con l’aiuto del suo “padre spirituale”, don Aniello Arciero, e di un avvocato suo adepto, tal Giuseppe De Vicaris, fondò una confraternita religiosa col nome di “congregazione della carità carnale“. Alla confraternita aderirono gran parte della nobiltà partenopea, molti alti prelati e diverse famiglie nobili anche non residenti in città. Gli incontri della fratria si tenevano presso la casa di uno dei massimi esponenti della corte vicereale, il conte Suarez.
Strane voci iniziarono a circolare sulle attività della confraternita, prontamente messe a tacere dal viceré in persona. Una denuncia per “pratiche oscene durante la celebrazione dei riti“, firmata da una suora teatina, Orsola Benincasa (poi divenuta santa) fu inoltrata direttamente al Santo Uffizio di Roma. Gli inquisitori inviati nel viceregno nel 1612, su ordine diretto di Papa Paolo V, iniziarono ad indagare e scoperchiarono il vaso di Pandora. Scoprirono che padre Aniello Arciero aveva idee simili ai Sociniani (culto protestante nato in Polonia che negava tutti i dogmi cattolici riguardanti il “peccato originale”, rigettava le gerarchie ecclesiastiche e seguiva alla lettera il passo evangelico: “Amatevi tutti come io vi ho amato”). Secondo le teorie di padre Arciero, gli atti sessuali non erano da considerarsi peccaminosi, bensì un’opera meritoria nei confronti di Dio, pertanto ogni religioso aveva “l’obbligo morale” di donare il suo corpo, come opera di carità cristiana, per la redenzione dei peccatori. Suor Giulia, in quanto depositaria dei doni mistici ricevuti dall’Alto, diveniva il soggetto prescelto per accedere alla salvezza, spalancava le porte del paradiso attraverso la disponibilità del suo corpo. Gli adepti della setta, se volevano essere mondati dai peccati quindi, dovevano rendere necessariamente omaggio al sesso della suora. Gli obblighi di preghiera venivano sostituiti dagli accessi alle parti intime della “madre”. I confratelli potevano seguire due “percorsi di preghiera”, “uno contemplativo e l’altro pratico” a secondo della loro età anagrafica. L’inchiesta procedette come nel crescendo dell’aria di don Basilio del “barbiere di Siviglia” di Rossini, “la calunnia è un venticello”, le semplici “voci calunniose” divennero deflagranti come “un colpo di cannone” che si abbatté sulla élite napoletana. Fu tale lo scandalo e il tumulto di popolo che seguirono all’arresto di suor Giulia che il processo dovette essere celebrato a Roma per motivi di sicurezza. I fondatori della “congregazione della carità carnale”, dopo aver confessato le loro colpe e fatta pubblica abiura, furono condannati: la De Marco al carcere a vita, padre Arciero fu spretato ed esiliato; scamparono al rogo solo per l’intervento del viceré napoletano, conte di Lemos, fortemente coinvolto nella vicenda. In tutta la storia dei regni succedutisi nella città di Napoli fu l’unica volta che fu permesso all’Inquisizione un’ingerenza giudiziaria nelle faccende del reame.
Una rilettura contemporanea della vicenda sulle fonti storiche, pur non negando le pratiche sessuali della setta, tende a rivalutare la figura di suor Giulia; forse divenuta un personaggio troppo ingombrante, si scelse di consegnarla al carcere perpetuo per cancellare la sua immagine dalla memoria collettiva. Molto probabilmente fu al centro di uno scontro di potere interno alla Chiesa: da un lato l’Ordine dei francescani, vicino alla corte spagnola, dall’altro i Teatini di fazione papale.
Due artisti vissuti a Napoli in quel periodo intesero probabilmente ritrarre Giulia nelle loro opere: uno fu Caravaggio, che, si pensa, in “Le sette opere di misericordia” diede le sue sembianze al personaggio della donna che allatta un vecchio; l’altro fu Gian Lorenzo Bernini che la usò forse come modella per la statua “L’estasi di Santa Teresa d’Avila”.